Il caso di Fabio Ridolfi e l’impossibilità di scegliere come morire

46 anni, di cui 18 passati immobile in un letto a causa di una tetraparesi. E’ la storia di Fabio Ridolfi che ha scelto di porre fine alla sua sofferenza, ma si e’ visto obbligato dalla burocrazia italiana a non poterne scegliere la modalità.

Il 29 febbraio del 2004, all’eta’ di 27 anni, Fabio viene colto da un malore improvviso che gli causa prima una perdita immediata dell’equilibrio, poi l’intorpidimento di tutto il lato sinistro del corpo. Dopo pochi giorni arriva la diagnosi: Tetraparesi da rottura dell’arteria basilare, una patologia irreversibile che lo costringe immobilizzato a letto, senza poter muovere nessuna parte del corpo, se non gli occhi, con cui Fabio comunica grazie ad un puntatore oculare.


Dopo mesi passati per la redazione e validazione del testamento biologico, ossia del documento legale nel quale vengono espresse le disposizioni anticipate della persona che ne richiede la redazione circa i trattamenti sanitari da intraprendere nel caso di una propria eventuale impossibilità a comunicare direttamente a causa di malattia o incapacità; il 10 gennaio del 2022 Fabio invia una richiesta all’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche. La sua richiesta e’ quella di essere sottoposto a verifica delle sue condizioni affinché, nel rispetto e nella piena applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 242/19, possa accedere al suicidio medicalmente assistito.

La sentenza n. 242/19 prende le mosse dal caso Cappato: il 28 febbraio 2017 Marco Cappato si presentava presso i Carabinieri di Milano dichiarando che, nei giorni precedenti, si era recato in Svizzera per accompagnare presso la sede della Dignitas Fabiano Antonani anche conosciuto come Dj Fabo, che lì aveva programmato e poi dato corso al suo suicidio assistito. L’accusa per Marco Cappato era di istigazione e aiuto al suicidio. Il processo che ne e’ seguito ha avuto un peso non indifferente circa l’assistenza al suicidio ed il fine vita.

Dj Fabo e Marco Cappato
Dj Fabo e Marco Cappato

 

La Corte costituzionale infatti si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento del proposito suicidario. La Corte ha ribadito che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione. La ratio dell’art. 580 c.p. consiste infatti nel tutelare le persone, soprattutto quelle più deboli e vulnerabili, che attraversano momenti di grave difficoltà e sofferenza, evitando che nella decisione estrema e irreversibile di togliersi la vita subiscano indebite interferenze da parte di terzi. Tuttavia, secondo la Corte, è possibile ravvisare una circoscritta area di non conformità costituzionale all’interno della fattispecie incriminatrice censurata. Nello specifico si tratta dei casi in cui l’aspirante suicida sia una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Pertanto, se chi è sottoposto a trattamenti di sostegno vitale è considerato dall’ordinamento in grado di interromperli e di porre così fine alla propria vita, non è ravvisabile la ragione per cui la stessa persona non possa decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di terzi, in presenza di determinate condizioni. In conclusione la Corte attraverso la sentenza n. 242/19 riconosce la possibilità’ che ci sia l’aiuto di terzi nel porre fine alla propria vita, affidando la verifica delle modalità di esecuzione e delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale.

Il fatto che sia già stato legiferato in materia di fine vita e che altri casi come quello di Dj Fabo e Davide Trentini abbiano dato una grande risonanza mediatica a questo argomento, non e’ stato sufficiente affinché la macchina burocratica italiana agisse in tempo, per quanto il tempo stesso possa essere un metro di misurazione di vita estremamente relativo quando ci si trova davanti ad una persona che soffre ogni istante.Fabio ridolfi

Dopo la richiesta di Fabio del 10 gennaio del 2022 l’Azienda Sanitaria Unica Regione Marche attiva le verifiche e il mese dopo l’équipe medica si reca presso il domicilio di Fabio per effettuare tutte le verifiche previste dalla sentenza della Consulta.  Il 15 marzo, la relazione medica è stata inviata al Comitato Etico, che ha emesso il proprio parere l’8 aprile: nel documento finale viene attestato che Ridolfi rientra nei parametri stabiliti dalla Consulta per potere accedere al suicidio assistito. Nonostante questo responso e ripetuti solleciti, a Fabio non arriva mai una comunicazione completa in quanto veniva sempre a mancare la parte più importante: ossia quella in cui vengono indicate le modalità di attuazione ed farmaco da usare affinché la volontà di Ridolfi potesse essere rispettata.

Ogni giorno di ritardo nel responso, per una persona che si trova nelle condizioni di Fabio, equivalgono ad ulteriori giorni di sofferenza.

 Così, Fabio, stanco di soffrire e di continuare la sua battaglia legale con  l’Azienda sanitaria delle Marche, decide di porre fine alla sua vita con la sospensione dei trattamenti e sedazione profonda ai sensi della legge 219/17.

Questa legge determina la facoltà da parte del malato di revocare il consenso alle cure e ai trattamenti di idratazione e nutrizione artificiali. Il medico, al fine di alleviare le sofferenze causate dalla sospensione dei trattamenti sottopone il paziente a sedazione. Intuibile capire come questa strada porti il paziente ad ulteriori giorni di sofferenza.

In Italia si e’ liberi di rifiutare le cure, ma non di porre fine ad un’esistenza che comporta, per chi la vive, più dolore che gioia. La vita e’ un bene estremamente prezioso, altresì la dignità di chi la vive.

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