Palestrina, la land art dei romani
Palestrina, meta del Grand Tour, custodisce una delle meraviglie dell’antichità: il gigantesco santuario di Fortuna che modella città e montagna
In una bella giornata invernale, fredda, luminosa, di quelle con un sole brillante e pallido, fate un’uscita a Palestrina.
È una gita che ai tempi del Grand Tour costituiva un vero e proprio must del viaggiatore colto, un po’ spericolato e anche stravagante, pronto da sobrio a richiamare i classici greci e latini, amante dei paesaggi struggenti, delle rovine, del pittoresco e dei ritrovamenti archeologici; in stato di ubriachezza, a sfidare i locali a morra nelle osterie e rimediarci pure qualche coltellata, che faceva tanto sturm und drang.
In questo Palestrina, meta dell’antica via Prenestina da prima dei tram e della tangenziale, fondata con il nome di Praeneste da un figlio di Ulisse e della maga Circe di nome Telefono e luogo di un immaginifico culto oracolare, città dell’inventore della polifonia, Montagna incantata e casa del Diavolo, ha pochi rivali al mondo.
Palestrina scolpisce il fianco sud del monte Ginestro, quello che guarda verso il mare da lontano, sul disegno poderoso del santuario di Fortuna, la madre di tutti gli dei compreso Giove, che ne era allo stesso tempo marito e figlio. Come quei palazzi del centro di Roma che, se ci fai caso, ma ci devi proprio fare caso, prendono forma da un antico teatro o da un tempio che gli riposa sotto, e incorporano qualche colonna che sbuca a una strana altezza dal sottosuolo.
Solo che qui il santuario modella la montagna fino a un’altezza di 83 metri, largo 240, con un progetto gigantesco e simmetrico di rampe, scale, terrazze, archi colonne e mura megalitiche che culminano con un panorama sui monti Lepini e i Castelli, il mare di Anzio sullo sfondo, e un’itera città gli sorge sopra. Imparentato più con le Piramidi, Stonehenge, i Megaliti e il loro stupore millenario che non con i soliti muretti bassi degli scavi archeologici dove, ti dicono, Qui c’era un’insula o un impianto termale, ma tu vedi solo muretti bassi.
Fortuna e sfortuna: è andata così
Secondo Cicerone andò così: Numerio Suffucio, evidentemente un brav’uomo, riceve in sogno l’istruzione di scavare in un punto del monte, in fondo a un pozzo trova delle tavolette in legno con incise misteriose frasi in latino arcaico, sono le sortes con cui la dea Fortuna comunica con gli uomini e da un ulivo che si trovava lì per caso trasuda del miele, a riprova della loro natura miracolosa; allora il devoto sega l’ulivo e ci fa un contenitore, un cofanetto, insomma un’arca in cui custodire le sorti arcane. Solo la sibilla prenestina può interpretarle. E infatti, si fa pagare bene.
Siamo nel IV secolo a.C. e il pozzo sacro è ancora miseramente circondato da una staccionata, poi viene coperto con un tholos, poi con la scusa di dare un riparo alla sibilla, ai pellegrini che la interrogano, ai venditori di ex voto e di souvenir in legno di corniolo arrivano ripari, alberghi, taverne, bagni pubblici; col fatto che Praeneste diventa ricca non solo perché gli oracoli si facevano pagare bene, ma perché controlla il collegamento viario tra centro e sud Italia, col fatto che si proietta verso l’Oriente tramite il porto di Anzio dove c’era un altro santuario delle Fortune; insomma nasce una gigantesca macchina oracolare, piena di folla in attesa, di mercanti, di ex voto a forma di organi genitali – Fortuna è la dea di un sacco di cose, anche della nascita, della crescita e della riproduzione – c’è l’erario, il foro, la basilica, il solarium, il teatro, l’Antro delle sorti, l’aula dell’oracolo, statue gigantesche con dee che allattano, dee guerriere, dee che guariscono, dee della morte, della guerra, della sorte alterna, dispensatrici di gioie e dolori, ma è sempre lei, Fortuna Primigenia, misteriosa divinità arcaica, nelle sue mille forme.
Nel santuario basso ne ricevi i vaticini; in cima, dopo un’ascensione per rampe e scale e colonnati che è anche viaggio iniziatico, trovi il tempio dove cercare il suo sguardo fisso verso il mare, e chiederle che i suoi responsi siano benigni. Da lassù i sacerdoti interrogano il volo degli uccelli.
La Montagna Incantata si scala a piedi
Oggi Palestrina va scoperta camminandola dal basso verso l’alto: non andate direttamente in cima con la macchina , dove nel Palazzo Colonna-Barberini che ingloba teatro e tempio c’è il Museo Archeologico Nazionale (ingresso 5 euro): vi perdereste la lenta ascesa, le poderose mura megalitiche, le rampe maestose, le viste prospettiche, gli sguardi sulla valle del Sacco, il campanile del Duomo di sant’Agapito che diventa sempre più piccolo, l’abitazione di Giovanni Pierluigi, via Thomas Mann e la casa dove il suo Doctor Faustus fece il patto col Diavolo: Mann si stabilì a Palestrina per diverse estati, e ne fu così stregato da farla vedere in sogno anche a Hans Castorp, protagonista della Montagna Incantata; nella pensione dove incontrò il Diavolo e abitò con il fratello, anche lui romanziere, pare vaghi ancora oggi qualche fantasma.
Dopo esservi riempiti gli occhi d’aria e di sguardo lontano, dell’incredibile mosaico del Nilo esondato, del primo mosaico a fumetti che si conosca (un libidinoso vecchietto greco vede una donna nuda e dice ‘Che bella, per Zeus Olimpio’) e di mille altre sorprese antiche, tornate giù, possibilmente percorrendo vicoli e scorci diversi dall’andata: è probabile che vi verrà fame. A Palestrina c’è una gran quantità di opzioni per mangiare, ma sarà che a noi piace ritrovare l’anima contadina dei luoghi, quella di prima del finger food, dello street food e senza considerare i fast food, vi diremo che nei pressi della Porta del Sole c’è un posto dove fanno dell’ottima polenta: a voi trovarlo.
Alle volte, seduti ai tavoli dell’osteria, tra salsicce e spuntature potrete incontrare compositori, mercanti greci, scrittori tedeschi, archeologi con il monocolo, fanciulle con cornucopie, cardinali panciuti. Ma non è facile vederli: dovrete prima avere Fortuna dalla vostra parte, e donare dieci assi di bronzo alla Sibilla.