Ventotene: l’isola del vento, dopo le Ferie d’agosto
Il giorno dopo il lancio in aria dei ‘palloni’, il 20 settembre, santa Candida guarda i turisti prendere il Don Francesco delle 15,00 e lasciare Ventotene. Da buona patrona, continuerà a proteggerla dal vento che le dà il nome, dai marosi e dalla troppa solitudine. Tirando forse un sospiro di sollievo: l’isola che i greci chiamavano Pandatarìa, ‘dispensatrice di ogni cosa’, passa in pochi giorni da tremila presenze a sì e no duecento anime, forse nemmeno quelle. Anche Virzì ci portò il set di Ferie d’agosto in quei giorni d’autunno, nel 1995, dovendo simulare una calda estate; mentre l’acqua già s’increspava sotto il maestrale, mettendo a dura prova attori e troupe.
Com’è vivere a Ventotene fuori stagione? Com’è la vita quotidiana su una piccola isola, quando tutti sono andati via?
Intanto Ventotene, che è il comune più piccolo di tutta l’Italia centrale (un chilometro quadrato e mezzo, più o meno), dista da Formia cinquantaquattro chilometri, con due collegamenti al giorno per due ore di viaggio o una sola, dipende se c’è la nave o l’aliscafo; tutto quello che va portato sull’isola, i prodotti per i ristoranti, le medicine, una betoniera, le sigarette, i fiori, un tubetto di colla, il latte, e fino a che non si realizzasse il dissalatore anche l’acqua potabile, va dunque caricato su quella nave, che tornando indietro porta con sé i rifiuti domestici e quelli speciali, i contenitori vuoti, le apette rotte da riparare. Le elementari mettono insieme dieci bambini e le medie uno solo; gli insegnanti, il farmacista, il medico condotto fanno su e giù, sempre se non c’è il mare grosso, oppure sono stagionali anche loro e dopo santa Candida se ne vanno via, come gli uccelli migratori.
D’altra parte già Augusto e Tiberio l’avevano usata per mandarci in esilio Giulia e Agrippina (dissolute, dicevano loro; in realtà dissidenti), i Borbone per farci un carcere durissimo, sull’isolotto di fronte, attivo fino al 1965; e i fascisti la città confinaria dove nei ‘cameroni’ mangiavano patate lesse Pertini, Terracini, Longo e Di Vittorio, e dove Spinelli scrisse il famoso Manifesto. Insomma, la sua condizione di scoglio solitario fu sempre sfruttata dal potere per fare degli isolani degli isolati, deprimendo la loro resistenza fisica e psicologica.
Eppure oggi c’è chi di Ventotene è innamorato tutto l’anno e ne ha fatto una scelta di vita, o perché ci è tornato, o perché non se n’era mai andato, oppure l’ha scelta da terricolo, per svernare. Quando chiudono i negozietti di souvenir, i baretti i ristoranti e i diving center, rendendo i vicoli silenziosi e vuoti, ma anche l’ufficio postale, la libreria, la farmacia e l’ambulatorio, quando la notte davanti al porto romano vedi fioche solo le luci di Ischia ed è impossibile non sentire ovunque il muggito del mare, e non è detto che se hai improvvisamente voglia di evasione le condizioni meteomarine ti consentiranno di andare a Formia, che a confronto pare Manhattan; allora per sopravvivere servono almeno un orto, attitudine alla sobrietà e una certa centratura. E un amore immenso per lei, l’Isola.
Il sindaco punta sul recupero del carcere di santo Stefano, l’Ergastolo. E’ una struttura straordinaria per tipologia, concepito come un teatro settecentesco all’aperto, con le celle invece delle logge, tre livelli che il Settembrini descrive come gironi dell’inferno che si controllano tutti da un unico punto centrale, dove c’è una garitta che fa anche da cappella; e ci sono passati tutti i prigionieri politici, dal regicida Gaetano Bresci ai padri della Repubblica: un simbolo potente che il Governo, all’epoca dell’anniversario dei Trattati di Roma, propose di recuperare, sovrapponendolo al Manifesto per un Europa libera e unita di Spinelli, scritto a Ventotene. Ci sono i soldi e un Tavolo tecnico, ma anche problemi pratici e logistici colossali, sia per restaurarlo che per farne qualsiasi uso.
I suoi assessori raccontano che c’è bisogno di consolidare le scogliere -dieci anni fa morirono due ragazze, schiacciate da un masso a Cala Rossano; di ampliare il depuratore, collocato in una grotta; di realizzare una foresteria per incentivare il medico o il segretario comunale a venirci, a Ventotene; di telemedicina per ovviare all’assenza di sanitari, di una cella frigorifera da collocare sulla nave, di evitare che crolli la Grotta dei Passeri, sotto l’unica strada che collega il porto al paese, di un approdo alternativo in caso di emergenza, di risistemare la strada che conduce all’eliporto, che sennò non ci passa nemmeno l’ambulanza. Altrimenti Ventotene non ce la farà, dicono con passione accorata. Già si spopolano i piccoli comuni sulla terraferma, figuriamoci l’Isola.
E c’è chi, con altrettanta passione, d’inverno tiene aperto il museo degli uccelli migratori, l’unico Conad, il benzinaio, la biglietteria di Laziomar pochi minuti prima che parta il Don Francesco o l’Unità Veloce; c’è perfino chi ha avuto il genio e il coraggio di realizzare all’interno del cimitero, e a proprie spese, un incredibile Museo della Vita; chi va a pesca per sé -per chi sennò? in attesa della primavera, quando riprenderà a guidare gommoni e visite a santo Stefano.
Mi sono trovato a Ventotene per motivi di lavoro, fuori stagione. In un dopocena ho camminato da solo, dopo aver annotato storie di naufraghi, di sirene e di amministratori eroici, in un silenzio surreale e perfetto, fra le bitte di tufo scavate dai romani, immerso nella luce gialla dei lampioni e nel loro ronzìo, neanche un gatto o un gabbiano, il vento carico di mare, di notte e di tempeste lontane.
Al ritorno un messaggio del mio ospite, ‘spero che l’isola non ti manchi tanto’: è un messaggio scritto, ma ha un accento vesuviano. Ripenso alle barche nel porto scavato dai romani, alle rampe dei Borbone, a santa Candida, a Pertini e agli uccelli migratori.
Spero che non ti manchi tanto. Lo trovo così struggente.
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