Civita di Bagnoregio, la Città nel Cielo
- Probabilmente l’avrete sentita più spesso definire come ‘la Città che muore’.
Questo titolo, affascinante ma un po’ tetro, la rispecchia solo in parte: se è vero che un giorno toccherà a tutti -e dunque anche alle città- per ora l’ineluttabile destino di Civita di Bagnoregio, provincia di Viterbo, frazione del Comune di Bagnoregio, 11 abitanti residenti, può aspettare. Almeno un altro po’.
La città dai piedi d’argilla
Vecchia è vecchia: più vecchia di Roma. Che non è che ci voglia poi molto: le città etrusche, con la loro raffinata civiltà, per definizione esistono da prima che sui Sette Colli ci fossero anche solo delle capannacce. Gli etruschi a Civita si erano già accorti che qualcosa non andava, e i romani a seguire: ogni tanto ne andava giù un pezzo nel burrone. Ma a quei tempi stare al sicuro su una rocca tufacea era troppo importante, e così la dotarono di opere contro l’erosione, come le canalizzazioni delle acque piovane, i contenimenti dei torrenti Chiaro e Torbido, che ne delimitano lo sperone, e quel tunnel spettacolare scavato nel tufo che oggi chiamano Bucaione.
Il problema è che il banco di tufo su cui poggia Civita poggia a sua volta su un banco di argilla, un po’ come come delle fondazioni di cemento gettate sulla sabbia. L’argilla la vedi poco più in là, nei calanchi, dove a volte resta un sasso di tufo, solitario e fiero, in cima a un pinnacolo argilloso; pioggia dopo pioggia, il pinnacolo diventa sempre più smilzo, e il sasso prima o poi chissà dove te lo ritrovi. Ecco, Civita funziona così.
Dai miracoli all’abbandono
Il fenomeno non fa che accrescerne il senso di solitudine e raccoglimento, l’ideale per meditare: nel duecento San Francesco sulla strada tra Orvieto e Viterbo ci si trova di passaggio, ci trova un ragazzino malaticcio e dopo averlo guarito gli dice: va’, ragazzino, buona fortuna, buona ventura. Sarà così che il giovane Giovanni Fidanza seguirà le orme del maestro, farà carriera e da grande diventerà San Bonaventura. Però questa storia dei miracoli a Civita non era proprio nuova: Desiderio, re dei Longobardi, cinquecento anni prima ci aveva fatto un bagno nelle acque termali guarendo da chissà quale malattia cisposa, e da quel momento la città si arricchiva del titolo di Balneum Regis.
Dopo questi fatti Civita non entra in particolari fatti di storia, schiacciata dalle lotte tra orvietani guelfi e viterbesi ghibellini (all’ingresso della città si notano, scolpiti sulla porta, dei leoni che divorano delle persone: i leoni sarebbero i Monaldeschi, guelfi di Orvieto, e le vittime quegli altri); e poi c’è sempre un pezzo che ogni tanto se ne casca di sotto. Piove sul bagnato, nel 1695 arriva un terremoto di intensità importante e Civita viene praticamente abbandonata. Un esile ponte, che poggia anche quello sulle argille sottostanti, collega la città sempre più isolata tra nuvole e calanchi; ogni tanto passa un contadino, un mulo, un prete rassegnato, un cane pallido: nel 1944 i tedeschi lo fanno saltare e viene giù anche quello. Il nuovo, i trecento metri di ponte che si vedono oggi, arriva nel 1965, ed è così brutto che la Provincia di Viterbo tempo qualche anno fa ha indetto un concorso di architettura per rifarlo.
La città che non muore più
A furia di ripetere che è la città che muore, però, Civita diventa famosa. Già Steno ci aveva girato I due colonnelli nel ’62, Luigi Zampa nel ‘70 Contestazione generale, nel 2009 arriverà pure Pinocchio in versione film tv. L’atmosfera è magica, non ci sono macchine, il paese non è circondato dalla solita periferia sciatta e cementizia ma da silenzio, dal giallogrigio abbacinante dei calanchi, dal lucus già sacro alle divinità dei boschi. Spesso lo vedi svettare dalla nebbia, poche le luci, nelle notti di primavera senti solo il canto dell’assiolo e del barbagianni.
Arrivano i primi finanziamenti per il consolidamento delle pareti tufacee e il restauro dei monumenti, la riscoperta del tipico e delle antiche tradizioni come il Palio della tonna, la processione del SS. Crocifisso, il presepe vivente; i B&B romantici, i ristorantini-enoteca e i prodotti locali, il Museo geologico e delle frane, l’atelier Segni Creativi della regione Lazio nato per “incentivare attività imprenditoriali e artigianali in ambito culturale”, la CNA che ci forma “progettisti e redattori di contenuti multimediali per la promozione di territorio e cultura”; tutte cose un sacco europee e un sacco turistiche. Come si dice in gergo, tutte buone pratiche.
L’animatore giapponese Hayao Miyazaki si ispira a Civita per il film Laputa – Il castello nel cielo del 1986 e La città incantata del 2001: dopo quell’anno i turisti nipponici aumenteranno del 20%. Dal 2013 il fragilissimo ecosistema culturale si visita pagando un biglietto di ingresso (oggi costa cinque euro, sicuramente ben spesi), nel 2017 arriva la candidatura a patrimonio Unesco e i visitatori raggiungono il numero di ottocentomila.
Insomma, Civita di Bagnoregio, che poi non era mai morta del tutto, torna a vivere. Nei fine settimana della bella stagione è presa d’assalto e non sai se esserne felice, un po’ ti viene da rimpiangere i tempi in cui era La-Città-Che-Muore, poi ti senti un po’ in colpa per averlo pensato.
Chissà, ti chiedi, sopra quel silenzioso lavorìo di argille che scivolano, per quanto tempo la Città-Nel-Cielo potrà opporsi al suo lento -il più lento possibile- destino.