A piedi nella terra dei Falisci

L’incredibile storia di Faleri, tra Roma e Viterbo, racconta di una fine apparente, o se preferite di una resurrezione. Anche le città, infatti, nascono e muoiono: di alcune si dice che siano eterne; altre deflagrano mentre sono al massimo del loro splendore, oppure si spengono piano piano, come dei corpi celesti.

Per sapere della storia di Faleri bisogna disporre di una giornata di bel tempo e incamminarsi sull’antica via Amerina, nella Tuscia, in uno dei paesaggi più dolci e struggenti del Lazio. Sarà proprio la strada a raccontarla: c’era una volta una città, e degli abitanti che non seppero mai dimenticarla. Nemmeno dopo mille anni.

 

Civita-Castellana

Faleri e l’antica Via Amerina

La storia, si sa, comincia sempre con i cammini. Siculi ed enotri migrano dall’Italia meridionale e si stanziano nell’Etruria lungo il basso corso del Tevere, fondando Faleri su uno sperone quando Roma ancora non esiste; per questo, da Faleri, verranno chiamati falisci. Prima assorbono la cultura etrusca, poi quella romana; ma i romani non sono gente da accontentarsi del soft power e quando arrivano gli scontri veri e propri Faleri viene rasa al suolo, peggio di Veio, di Capena e delle altre città della dodecapoli etrusca, che erano state ‘solo’ occupate: tra tutte le guerre con i romani i falisci contano quindicimila morti. Così il vecchio sito viene abbandonato, desolato e vuoto, e diviene noto come Faleri Veteres perché i superstiti vengono deportati in pianura, in una nuova città che in caso di ribellione può essere facilmente controllata, Faleri Novi. Per portare civiltà e truppe in tutta la zona conquistata i romani costruiscono anche la via Amerina, che parte dalla Cassia e, passando per Nepi e per la nuova città, arriva fino in Umbria.

Cavo degli Zucchi Amerina
Foto di Francesco Braghetta
Ponte via Amerina Amerina
Foto di Francesco Braghetta

Se si lascia la macchina ad un certo punto della S.P. Nepesina, (per visualizzare il percorso vedere qui) l’occhio coglierà un sentiero che non può essere un tratturo qualunque, troppo bene si fonde con i pascoli, i filari di pini e i pendii della campagna: dev’essere lì da molto tempo (e comunque è indicato). Il sentiero si infila nel bosco poi ne esce, borda i campi, diviene confine, poi quando incontra le forre si alza, si fa ponte, guarda l’acqua dai piloni in tufo, a volte scende giù tra i basoli crollati, costeggia anche delle villette ma lo sguardo arriva lontano, fino ai monti Cimini. C’è silenzio, fiori, aria. Man mano che si procede si infittiscono i segni premonitori di un arrivo  – se da un verso le strade portano a Roma, dall’altro devono pur arrivare da qualche altra parte. Le tombe scavate nel tufo, coperte dal bosco, aumentano di numero, il basolato sotto i piedi si fa più continuo e si arriva al Cavo degli Zucchi, dove la strada si apre tra pareti di tufo trasformate in colombari e tombe a più altezze e dimensioni, più di duecento, in un’esplosione di forme silenti, un gran movimento di affreschi svaniti, di decorazioni sgretolate e di invisibili cortei funebri. La città non può essere lontana.

Porta di Giove II Amerina
Foto di Francesco Braghetta

 

C’era una volta, poi non c’era più

Abbazia Amerina
Foto di Francesco Braghetta

Dopo neanche tre ore di cammino dall’inizio si scende nell’ultima forra, si guada camminando sui pezzi di un antico ponte e senza capire come, tra campi, siepi di rovi e strade bianche ci si ritrova davanti, in blocchi di tufo rossastri, la Porta di Giove e delle mura alte sei o sette metri. Ma non c’è un dentro e un fuori: varcata la porta, oltre la cinta muraria, continua l’aperta campagna; eppure, avanzando, se ne scorge l’intero periplo, più di due chilometri di mura ad abbracciare solo campi, come se qualcuno avesse deciso di costruire una città cominciando dalle mura, e completate quelle avesse lasciato perdere. O forse no: più avanti, tra balle di fieno, pezzi di trattori, cani galline e pini domestici, un’enorme fattoria dagli alti fienili e dalle masse gravi si rivela essere un’abbazia cistercense del 1100, Santa Maria di Faleri -girato l’angolo compare anche un grande rosone in marmo bianco. Per fondarla i monaci arrivarono dalla Savoia, nientemeno, ma già nel 1300 risultava abbandonata e le sue mura utilizzate per le attività agricole. Perché tanto spreco?

In realtà Faleri Novi, che conserva tutte le mura romane, cinquanta delle ottanta torrette di guardia originarie, un anfiteatro e un’altra delle sei monumentali porte, cominciò a spopolarsi già sul finire del millennio, e l’ultima menzione è del 1064: i romani l’avevano voluta indifendibile, e le guerre gotiche prima e quelle longobarde poi ne rivelarono tutta la fragilità. Finché la via Amerina aveva collegato il Ducato di Roma e l’Esarcato di Ravenna, esile anima del Corridoio Bizantino, Faleri Novi aveva avuto una relativa importanza.

Mura Amerina
Foto di Francesco Braghetta

La città che visse due volte

Ma c’è un destino che lega una città agli abitanti, un misterioso richiamo tra le sue pietre primigenie e i fondatori che le tagliarono; e così, abbandonata Faleri Novi, dopo più di mille anni la diaspora falisca ha termine: gli antichi abitanti dell’ager faliscus in cerca di riparo tornano da dove erano venuti, da dove gli invasori li avevano strappati per portarli in un luogo al quale non erano mai davvero appartenuti. Lo sperone di roccia di Faleri Veteres è molto più sicuro, guarda il Tevere e le vie di sponda – non è che i figli di Agamennone non sapessero come scegliere i siti, erano legati alla dea Terra e alle divinità ctonie molto più dei romani, i primi veri distruttori dell’equilibrio ecologico. Ed è lì, nel sito originario, che i falisci tornano a vivere. Dopo più di un millennio.

Faleri Veteres diventa quindi Massa Castellania, cui Papa Gregorio V attribuirà il titolo di Civitas. Oggi si chiama Civita Castellana.

Nel forte Sangallo c’è il Museo Nazionale dell’Agro Falisco, dalle cui vetrinette Faleri Novi e la via Amerina continuano a raccontare le loro antiche storie di cammini, e di ritorni.

Primo piano Radicofani

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