Coast to coast nei Balcani
I parte: Albania -Macedonia
Tutti associamo il coast to coast agli Stati Uniti, alla Route 66 e a un immaginario americano.
Ma un itinerario da una costa a un’altra ha solo due punti fermi: il mare da cui parti e quello dove arrivi. Tutto quello che c’è in mezzo –montagne, laghi, conflitti e paesaggi umani, che da sempre seguono l’antico corso delle acque- ti farà scivolare verso l’uno o verso l’altro, come una goccia di pioggia. Un coast to coast è dunque necessariamente on the road, e ti lega alla terra, all’acqua e al suo infinito e primordiale migrare.
Il nostro viaggio in due puntate congiunge l’Adriatico con il Mar Nero, per salire e ridiscendere i Balcani, e scoprire i paesi forse meno conosciuti dell’est europeo: Albania, Macedonia e Bulgaria. Un viaggio che infila retaggi bizantini, ottomani, memorie del novecento, alfabeti e religioni che mutano con gli accidenti della Storia. Se il balkan coast to coast lo prendi più a nord, per esempio da Dubrovnik a Costanza, dalla Croazia alla Romania, ci trovi in mezzo la barriera del Danubio, con le sue immense pianure; e ti confondi, i mari sono troppo lontani, e della geografia peninsulare perdi la percezione.
L’Albania: un mistero sospeso tra bunker, minareti e raki
Da Bari a Durazzo si va in nave, ovviamente, ascoltando storie di famiglie emigrate che tornano a casa per le vacanze e cominciando così ad immaginarla, l’altra sponda dell’Adriatico. Proseguire in treno per Tirana è esperienza memorabile: due ore per quaranta chilometri lungo l’autostrada nuova di zecca, con i cartelloni pubblicitari e i centri commerciali, passando tra galline, misteriosi bunker e casupole color pozzanghera: presto saranno demolite per far spazio a palazzi postmoderni, che forse resteranno vuoti.
Tirana ha un centro urbano razionalista, che ricorda vagamente Latina, e l’Eur, anche –ci si sentono a loro agio anche le architetture del regime di Enver Hoxa- ma con i minareti, le case in legno, le aiuole curate; come un’isola in mezzo ai palazzi delle periferie che Edil Rama, l’attuale premier, ha provato a colorare un po’. Sensazioni forti come i piatti tipici, che fanno ampio uso di interiora, e che raccontano storie di arcigni montanari, scannatori di montoni; e come l’alcolica e potente raki.
Se volete fare il coast to coast in due settimane non avete tempo di andare a vedere l’antica Gjirokastra, oppure Berat, la città delle mille finestre, o la Butrinti greca con le sue lagune: i must del Paese delle Aquile. Tornerete. Prendete invece un furgon insieme a operai che tornano a casa come quelli che si vedono sul GRA, e vi fate il viaggio verso l’interno, tenendo gli occhi incollati a montagne dure e paesi dalla forma indefinita, come Elbasan, eppure così intensi di speranza, di un brulichìo quasi indiano di gente che cammina lungo strade sterrate. E se volete fare davvero le cose per bene, a Pogradec attraversate il confine chiedendo passaggi ai locali con le loro vecchie Mercedes, restate in guardia perché siete prevenuti, invece incontrate autisti sorridenti che vogliono solo parlare italiano –se riescono ad abbassare la radio che spara a palla melodie orientali. Fuori, un disordine visivo e auditivo, un casino che risulta un po’ incomprensibile, un po’ divertente; e un po’ familiare, se abiti da Roma in giù. Qui l’Albania finisce, voltando le spalle al grande lago di Ohrid.
Una sorpresa nel cuore dei Balcani: la Macedonia (del Nord)
Chissà come immaginarla la Macedonia, che i greci moderni chiamavano FYROM, Former Yugoslavian Republic of Makedonia, per tenere l’esclusiva sul nome del paese di Alessandro Magno (ora, dopo un contestato voto del parlamento greco, possono chiamarla anche ‘Macedonia del Nord’). Sorpresa: varcato il confine è verde e boscosa, la strada è in ottime condizioni. E a Ohrid, che al grande lago dà il nome, tra cipressi, monasteri, gallerie d’arte e tracce di un antica presenza di intellettuali olandesi, par quasi di stare sul Lago Maggiore; solo che le chiesette sono bizantine e hanno nomi evocativi come Sveti Sofja, Sveti Kliment e Sveti Nikola. Insomma, tutt’altra atmosfera, altra lingua e altro alfabeto, quello cirillico. In qualche taverna turistica –speravate di essere viaggiatori, ma siete turisti, non siete i primi ad aver avuto l’idea di venire qui e ovviamente, e per fortuna dei macedoni, trovate il turismo- mangerete una sopska, una sorta di insalata greca con la feta grattugiata sopra, e skara, carne grigliata.
Poi un bus vi porta a Skopje. Passando per zone rurali dove le case espongono la bandiera albanese: siamo vicini al Kosovo, e il separatismo Shqiperise è arrivato fino a qui. Anche la capitale macedone, rasa al suolo dal terremoto del 1963, ha qualcosa di surreale: monumenti che si fatica a non definire kitsch, come le gigantesche fontane-fungo che fanno la doccia a gloriosi soldati della falange macedone, che di notte si illuminano di tutti i colori; e una serie di palazzi di gusto slavo moderno lungo il fiume Vardar, una versione balcanica, e un po’ goffa, di Berlino e la sua Spree.
E anche Skopje ha un cuore ottomano, alle cinque parte il muezzin e tra chiese ortodosse non molto avvenenti c’è la Carsija, il quartiere turco con le sue moschee, i bagni e la piazzetta del Vecchio Bazar. Lì, sotto i grandi platani piantati dal pashà sono concentrati i ristoranti più caratteristici. Si cena fianco a fianco con funzionari americani dell’ONU, o con turisti-viaggiatori globali con la Lonely poggiata sul tavolo, anche loro venuti fin qui per vedere cosa c’è a Skopje. Intanto un gruppo di ragazzi macedoni un sacco rock, ma anche soul funk e r’n’b, sotto i grandi platani di Mustafa Pasha, quello della Grande Moschea, suona Sitt’n on the dock of the bay.
(Il viaggio continua in Bulgaria, se vi va, la prossima settimana)