Gioco d’azzardo: impalpabile confine tra legalità e illegalità
Terza impresa italiana a livello di fatturato che non risente della crisi, ma che, al contrario, sembra gonfiarsi in maniera direttamente proporzionale all’aumento di questa. 400 mila macchinette che ingurgitano 90 miliardi l’anno, 800 mila persone dipendenti da gioco d’azzardo e due milioni a rischio. Di fronte a queste cifre la mafia avrebbe potuto tirarsi indietro dal partecipare a questo business?
«Da 15 anni la nostra cultura ha subito un forte strappo negativo rispetto al passato per quanto riguarda il discorso del gioco d’azzardo. Prima, infatti, il fenomeno era abbinato a un principio di illegalità che, di conseguenza, lo portava a essere considerato un disvalore per la società; ragion per cui i luoghi in cui questo veniva praticato erano lontani da centri abitati e, dunque, dalla quotidianità» sostiene Maurizio Fiasco, sociologo dell’Università di Roma Tor Vergata e consulente della Consulta nazionale anti usura. Questo strappo con il passato si è manifestato attraverso l’apparizione di numerose deroghe sul principio di illegalità, le quali hanno reso impalpabile il confine di questo concetto con il suo opposto e, dunque, hanno dato vita a una capillarità nella presenza di punti di gioco in luoghi pubblici, dunque legali. Ed è proprio la facciata legale del gioco d’azzardo quella più subdola, perché è da qui che partono le infiltrazioni mafiose, che oramai coinvolgono 49 clan comprendenti le varie associazioni criminali del nostro Paese e che gestiscono un giro di affari pari a 10 miliardi. Le slot machine sono il vulnus grosso dell’azzardo, come afferma Daniele Poto, giornalista e curatore del dossier Azzardopoli, testo pubblicato su Libera, che spiega dettagliatamente i meccanismi di infiltrazione mafiosa nel gioco d’azzardo. «Il 57% del sistema infatti è dovuto alla presenza di queste in bar e tabaccherie. Mettere 6 slot può assicurare un guadagno medio dai 3.500 ai 6.000 euro di traffico legale, se poi si parla di illegale non è difficile immaginare un aumento vertiginoso dei proventi. Ed è proprio attraverso queste che la fantasia mafiosa più si esercita».
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«Sette modi diversi di eludere il controllo del monopolio – continua Daniele Poto – il più tradizionale di questi è quello di creare schede di software clone da inserire all’interno delle macchinette, che lavorano parallelamente a quelle ufficiali dello Stato, dunque difficilmente rintracciabili dal fisco e che possono assicurare cifre di 20.000 euro al giorno, fino a 40.000». E di questo sistema si è avvalso Nicola Femia, esponente della ‘ndrangheta considerato il boss delle slot machine truccate che, nell’udienza dello scorso 21 gennaio, è stato rinviato a giudizio insieme ad altre 25 persone per aver messo in piedi, in tutta l’Emilia Romagna, un giro di slot machine truccate per evadere il fisco. Nel business illegale delle slot machine regna dunque il sistema del gioco d’azzardo grigio, ovvero quello in cui sale da gioco, o punti slot, si prestano in modo legale a essere lavanderie per riciclaggio di soldi sporchi. Come? Attraverso l’imposizione, da parte dei clan, di noleggiare apparecchi di videogiochi e l’acquisto, sempre da parte di questi, di biglietti vincenti pagando un sovrapprezzo che va dal cinque al dieci per cento del premio. Tutte queste deroghe di cui si parlava, dunque, hanno reso la legislazione regolante il sistema del gioco piena di buchi, zone buie di cui i clan si sono subito approfittati per gestire parallelamente e con la consapevolezza dello Stato un business deleterio sia per le tasche dei cittadini che per la loro salute.