Il silenzio degli imputati
Fossimo alle prese con un Paese normale avremmo le prime pagine di tutti i quotidiani invasi (non da oggi) da aggiornamenti dettagliati per filo e per segno sul caso Ilva. E, magari, ne sapremmo di più sull’inchiesta Ambiente Svenduto, cominciata nel 2009 e che rischia di concludersi portando in Tribunale un buon numero di personaggi illustri della vita nazionale.
È notizia di pochi giorni fa, infatti, la richiesta della Procura di Taranto di rinviare a giudizio 53 persone con accuse diverse: associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, reati contro la pubblica amministrazione, avvelenamento di acque e sostanze alimentari ma anche – dulcis in fundo – omicidio colposo per due casi di morti bianche avvenute nell’impianto.
La cosa che più fa accapponare la pelle è, però, il coinvolgimento di un po’ tutti gli ambiti di potere alle spalle di quel siderurgico più volte negli anni definito bene nazionale, spesso a discapito degli 8mila e passa casi di malattie nel polo ionico. I nomi che vanno di mezzo sono infatti assai variegati: dagli attuali proprietari dell’Ilva Emilio Riva con i figli Fabio e Nicola ai precedenti direttori dello stabilimento Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, quindi l’ex addetto alle relazioni istituzionali dell’Ilva di Taranto, Girolamo Archiná, il direttore dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Puglia, Giorgio Assennato, l’assessore all’Ambiente della Regione Puglia, Lorenzo Nicastro, l’ex consigliere regionale della Puglia oggi deputato di Sel Nicola Fratoianni, l’attuale consigliere regionale Donato Pentassuglia del Pd e, dulcis in fundo, l’ex capo della segreteria tecnica dell’allora Ministro Stefania Prestigiacomo, Luigi Pelaggi. Ma anche nomi locali: il Sindaco Ippazio Stefàno, l’ex presidente della Provincia Giovanni Florido, un docente universitario e persino un sacerdote. Riscontri impietosi per una politica messa alle strette dalla magistratura in un cerchio immaginario che ben si chiude sulla testa del Presidente della Regione, Nichi Vendola, anch’egli indagato.
«Abbiamo difeso la fabbrica e i lavoratori» chiosa Vendola, dimenticando non solo l’ambiente, i tumori, le aree verdi dell’area Tamburi ove il Sindaco con un’ordinanza vietò ai bambini di giocare, ma anche e soprattutto che nella categoria dei lavoratori figurano tutti coloro che hanno dovuto sopprimere bestiame o dichiarare morte le attività di milticoltura a causa di contaminazioni da diossina e benzo(a)pirene nell’aria, proprio mentre il Sindaco mangiava in piazza mitili per dimostrarne la bontà e la purezza. E così, mentre il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli – presente in consiglio comunale a Taranto – in un’intervista a La Repubblica pone 5 domande (ad oggi ancora senza risposta) al Governatore chiedendone le dimissioni, le reazioni di Vendola ricordano uno stile già troppo noto nel pur discutibile scenario degli intrecci tra politica e giustizia di questo paese, denunciando una umiliazione e chiudendo, soprattutto, con un già sentito «non perdo fiducia nella forza della giustizia».
Qualche tempo fa, per chi ha memoria, Vendola chiese le dimissioni del Ministro Cancellieri pigolando circa «telefonate inopportune». Onor del vero, l’ex Guardasigilli non era indagata e neanche imputata eppure il Governatore riscontrò nel suo coinvolgimento “telefonico” con la famiglia Ligresti un «grave errore politico».
Forse, nell’attesa del giudizio del gup sull’effettivo rinvio a giudizio, proprio mentre viene difeso a spada tratta dai consiglieri regionali di centro-sinistra (ma anche da quelli di centro-destra che chiedono di non usare due pesi e due misure), Vendola deve aver rimuginato sui valori delle telefonate e su quello delle dimissioni, atto che definiva di «igiene istituzionale» solo pochi mesi fa, nel caso Alfano-Shalabayeva. D’altronde, come dargli torto, solo gli stupidi non cambiano mai idea.