Anamnesi di un italiano nelle miniere di Charleroi

“Ogni mattina alle 7 ci raggruppavamo attorno al punto di discesa verso la miniera: il suono di una sirena squarciava il gelo mattutino mentre il rumore metallico dell’ascensore in risalita preannunciava una nuova giornata di lavoro. I turni duravano otto ore, la vita laggiù era davvero dura”.

Incontrai per la prima volta Giovanni Nardi a Ladispoli, durante una lunga attesa dal barbiere: uomo dal carattere forte e senza peli sulla lingua, il Signor Nardi si rivela dopo pochi secondi una persona piuttosto loquace: mezz’ora di chiacchierata è stata più che sufficiente per capire di avere davanti a me una straordinaria testimonianza di vita, un patrimonio d’italianità.

Durante la guerra papà ci portò nel nostro paese d’origine in Umbria. Finito il conflitto tornai a Roma e un giorno incontrai una ragazza: le davo almeno 20-21 anni, io all’epoca ne avevo 17. Quando le chiesi l’età, scoprii che aveva 13 anni. Ecco, quella sarebbe stata la donna della mia vita”. Tra lui e quella giovane ragazza si stagliava l’ostacolo insormontabile della diffidenza genitoriale: la giovane era infatti parente di personaggi di spicco della Democrazia Cristiana. Pur di sposarla il Signor Nardi raccoglie l’appello del Governo italiano dell’epoca, fa le valigie e a soli 19 anni parte verso il Belgio, trovando un impiego preso il bacino di minerario di Charleroi: era il 1956.

Nell’immediato dopoguerra migliaia di manifesti rosa appestano le piazze dello stivale: offresi posti di lavoro nelle miniere della Vallonia, salari alti, pensionamento anticipato, rimborso spese ferroviari, “et voilà, a bientôt Italie!”. Su un metaforico retro di quel pezzo di carta si annidiavano silicosi, turni di lavoro asfissianti e l’aria rarefatta che si respira quando ti ritrovi a picconare a 1000 metri nel cuore della terra.

Una grossa corona di ferro: questo fu l’oggetto che accompagnò i primi giorni in miniera del Sig. Nardi. Durante la prime ore i minatori venivano impiegati in superficie, dove trasportavano questi enormi oggetti tramite una grossa spalliera di cuoio. Dopo soli tre giorni l’operaio scendeva in miniera, totalmente ignaro del fatto che quel nuovo mestiere avrebbe condizionato la sua vita per sempre.

Furono centinaia di migliaia gli italiani spediti in un paese che abbisognava fortemente di manodopera. Forza lavoro fresca in cambio di un po’ di carbone. Il Signor Nardi digrigna i denti mentre parla di “contratto capestro”. Quando la conversazione si sposta sui Governi della DC e su Amintore Fanfani, all’epoca Ministro degli esteri, lo sguardo si fa cupo: “mi ha tolto la dignità di essere un uomo, aspetti aiuto dal tuo Governo e ti senti abbandonato”.

Il Belgio degli anni ‘50 è composto in larga parte da una classe operaia piuttosto imborghesita, non esiste lotta di classe: i minatori sono aiutati dal Governo sotto molti aspetti. Stando alle parole del Sig. Nardi molti di questi avevano una casa con un orto e alcuni animali domestici, producevano burro e latte non avendo quindi alcun bisogno di far sentire la propria voce in miniera. L’approccio iniziale con l’italiano è freddo, distaccato: “se loro estraevano 10 m di carbone per una certa cifra, noi italiani ne raccoglievamo 12 per una stupidaggine in più”. L’italiano ha fame, vuole veder aumentare il proprio salario e le proprie tutele sul luogo di lavoro. Bastava una malattia nei primi cinque anni e l’emigrato si ritrovava senza alcuna forma di previdenza sociale, sbattuto in mezzo a una strada, malato e per di più in un paese straniero. Tempo dieci anni e quegli stessi italiani spesso vituperati in giro per l’Europa educheranno migliaia di belgi alle lotte sindacali, portando un barlume di civiltà dentro le gallerie della Vallonia.

Grazie alla CGIL, al patronato INCA e alla centrale minatori la silicosi diviene una malattia riconosciuta sul lavoro, si abbassano le ore lavorative, vengono considerati i giorni festivi e viene corrisposto ai minatori un premio di produzione. Successi di un vero sindacato negli anni del dopoguerra.

Quando hanno visto che noi eravamo gente con il sangue latino, rivoluzionario, hanno cominciato a guardarsi intorno capendo che stavamo lottando anche per loro e da lì in poi siamo stati più compatti in miniera”. Sagacia italica.

Nel 1960 vengono indette 4 settimane di sciopero, gli italiani guidano la lotta nei cunicoli di Charleroi. Giuseppe Di Vittorio, segretario CGIL, fa spesso visita ai suoi militanti, il Signor Nardi lo ricorda con affetto: “Di Vittorio aveva un debole per l’emigrazione perché lui stesso fu costretto a emigrare per motivi politici: noi non lo abbiamo mai dimenticato”.

Nonostante i numerosi successi sul fronte dei diritti il prezzo pagato dai nostri connazionali in quegli anni fu drammatico: “non c’è una miniera in Belgio che non sia macchiata dal sangue di un minatore italiano”.

Durante i primi tre mesi di soggiorno in Belgio i nostri connazionali venivano addestrati alla vita in miniera: dopo questo periodo di apprendistato erano pronti per essere gettati nelle viscere dei bacini carboniferi della Mitteleuropa, spingendosi fino a 2000 metri di profondità. Il frastuono dei martelli pneumatici, le alte temperature e la costante, ineludibile presenza di sottili polveri nere su ogni singola parte del corpo hanno caratterizzato ogni singola giornata dei nostri lavoratori nei cunicoli di Charleroi. Le ore di lavoro, di vita, trascorse in spazi angusti non riuscirono a portare via il ricordo della propria madrepatria ai molti, troppi, italiani spediti in quei lugubri tunnel dimenticati dal mondo.

ho conosciuto gente che ha perso braccia, persone che si ammalavano al solo pensiero di stare all’estero, bastava si sentisse una canzone italiana e piangevano, alcuni non riuscivano ad andare al bagno, altri con il calore del forno e con la polvere del carbone e con il grasso che si attaccavano sui pori della pelle vedevano spuntare enormi foruncoli in ogni parte del corpo”.

Ascensori saturi di operai in fase di discesa tornano in superficie più leggeri: durante il suo lungo soggiorno in Belgio il Signor Nardi ha visto spirare molte vite, compagni di viaggio. Luigi Mazzeo, 32 anni, veniva da un piccolo paese in provincia di Lecce chiamato Parabita, a pochi chilometri da Gallipoli. Mazzeo una miniera non l’aveva mai vista, era cresciuto tra schiere di ulivi, bassi muretti di pietra e il profumo del mare. Un giorno, nell’autunno del ’69, fa visita al Signor Nardi chiedendogli se il Dottor Moreau fosse un bravo dottore: Mazzeo stava male e rischiava di perdere la pensione qualora fosse stato costretto ad abbandonare la miniera anzitempo. Nel 1968, dopo tre figlie femmine sua moglie aveva finalmente partorito il maschietto tanto agognato: fu così che decise di investire il frutto del suo sudore in miniera in una casa nella terra madre, la sua Itaca così lontana. Nel tepore della sua abitazione a Charleroi, piccola oasi italiana nel freddo continentale di novembre, il Signor Nardi consigliò a Mazzeo di stringere i denti e tirare la cinghia ancora qualche settimana.

Era il 3 novembre quando Luigi tornò a lavorare: rimase sotto una valanga di carbone e di legname. Io personalmente sono andato lì per tirarlo fuori, impiegai circa tre ore. La cosa più critica, più brutta fu sentire le sue ultime parole: «sbrigati a tirarmi fuori perché mi sento morire». Pensavo fosse vivo dato che era caldo. Quando l’ho estratto dalle macerie la sua testa si è piegata, senza vita, sulla mia”.

Storie come quelle di Giovanni Nardi non possono essere dimenticate, per un motivo ben preciso.

Secondo la pletora di opinionisti e starlette da strapazzo che quotidianamente affollano i nostri media, sentirsi italiani nel 2018 costituirebbe motivo di vergogna: questa partouze di intellò italofobici compete quotidianamente misurando con cura chi ha l’odio per il proprio paese più lungo degli altri. L’autorazzismo è latente.

Ricordare storie come quelle del Signor Giovanni Nardi ci riporta alla realtà dei fatti: l’Italia è un Paese straordinario che deve conservare i propri traguardi storici. Sapete dove sono conservate le battaglie condotte nei tunnel mortiferi di Charleroi? Nella nostra Costituzione. Il sangue, il sudore, le lacrime, la solitudine, la passione dei nostri padri sono conservate in quella carta, dove la dignità dell’uomo è messa al centro e il perseguimento della piena occupazione è un principio fondamentale, intaccabile. Salari dignitosi, previdenza e assistenza sociale, tutela degli inabili sono incisi negli artt. 4, 35 e 38 della nostra Costituzione anche grazie a uomini come Giovanni Nardi.

Quando ci dicono di essere fortunati a essere nati qui, quando ci ripetono che per misteriose cause naturali la globalizzazione avanza incessante (in realtà i trattati internazionali di libero scambio li firmano uomini in carne ed ossa, non la tettonica a zolle o le tempeste elettromagnetiche) e che per questo occorre cedere i nostri diritti per avvantaggiare chi ne ha meno, quando blaterano con gli occhi sgranati che “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e che viviamo nel paese di Bengodi per bontà divina c’è solo una cosa da fare: assestare un ceffone all’antitaliano e rinsavirlo. Quei diritti sono il frutto del dolore dei nostri padri, non è certo togliendo a noi che qualcun altro avrà. La similitudine forzata tra il concetto di Stato-nazione e le esperienze dittatoriali della prima metà del ‘900 è una maschera dietro la quale si cela lo smantellamento dello Stato sociale, costellato dal ventaglio di tutele sostanziali che il Signor Nardi e i suoi compagni tanto hanno desiderato nei loro giorni spesi nella lontana Vallonia. Il culto mondialista delle classi inferiori provoca morti tra chi lo venera e orgasmi tra chi, affamandoci, lo propaga: ascoltiamo i nostri anziani e difendiamo la nostra Costituzione, ultimo baluardo in un tempo di lupi. Viva l’Italia.