Chi è Draymond Green: l’anima del terzo titolo Warriors
I Golden State Warriors sono campioni NBA per la terza volta nelle ultime quattro stagioni. Lo diventano con uno “sweep”, un secco 4-0 ai danni dei Cleveland Cavaliers e del giocatore più forte del pianeta. Sarebbe facile decantare le lodi di Kevin Durant, eletto MVP delle Finals grazie ai 43 punti con cui ha praticamente vinto da solo gara 3 in Ohio. Sarebbe ancor più semplice spiegare perché la capacità di costruire e segnare da qualsiasi distanza di Stephen Curry siano un rebus letale per qualsiasi difesa. Quello che è più difficile da spiegare è come, in una squadra che al suo interno conta due MVP, un perenne All-Stars come Klay Thompson, e giocatori dall’altissimo QI cestistico come Iguodala e Livingstone, il vero centro di tutto sia un personaggio di nome Draymond Green. Un giocatore che sembra uscito dagli anni ’90 e che, a fronte di un atletismo tutt’altro che clamoroso, si è imposto come anima e cuore di una delle franchigie più forti di tutti i tempi.
Fino a qualche anno fa i ragazzi appena usciti dalle High School e in procinto di iscriversi al College, potevano rendersi eleggibili per il draft NBA, compiendo così il grande salto. Lo ha fatto LeBron James, conscio che il college non avrebbe potuto aggiungere nulla a quello che era già, a tutti gli effetti un predestinato. Sono state cambiate le regole, imponendo ai ragazzi l’obbligatorietà del passaggio accademico per poter accedere “al piano di sopra”. Molti di questi talenti, dopo un solo anno di college partono per monetizzare al massimo la durata della loro carriera. Lo stesso non si può dire per il buon Draymond, per ben quattro anni con gli MSU Spartans. Un evento più unico che raro per un giocatore destinato a diventare un All-Stars. Nel 2012 i Golden State Warriors lo draftano con la chiamata numero 35. Prendono un giocatore maturo, in grado di dare subito il proprio contributo alla causa di una franchigia in ricostruzione da anni.
L’impatto di Green su GS è incredibile. Dopo due stagioni di ambientamento, concluse a 13 e 21 minuti di media ad allacciata di scarpe, Green diventa il perno del sistema Kerr. In attacco quasi tutti i possessi passano per le sue mani, nonostante sia un’ala grande. Ha una visione e una consapevolezza del gioco assolutamente mostruose. Green è in grado di capire cosa sta per succedere in anticipo rispetto a tutti gli altri giocatori in campo. Gli assist diventano quasi 4 a partita nella terza stagione e diventeranno quasi 8 a partita da quel momento fino ad oggi. Un vero playmaker ombra, grazie al quale Curry e Klay Thompson diventano liberi di potersi muovere e smarcare senza palla, facendo impazzire le difese di mezzo mondo. Il tiro di Green non è eccezionale: da tre tira con un onesto 32% in carriera, con la capacità di farlo diventare 34% nei playoff. Quando la palla conta, Draymond si esalta.
Se l’impatto nella metà campo offensiva è assolutamente sottovalutato, Green è il vero leader di Golden State nella metà campo difensiva. Green è, per distacco, il miglior difensore NBA di questi anni. Pur non avendo l’atletismo o la capacità di tenere l’uno contro uno di un Leonard, Draymond è un allenatore difensivo in campo e in questo senso la trovata geniale di coach Kerr è quella di posizionarlo spesso sul giocatore meno pericoloso della squadra avversaria. In questo modo il numero 23 dei Warriors ha il tempo per coordinare e gestire tutta la fase difensiva, organizzando rotazioni e cambi. Green, forte del suo innato senso del gioco, è in grado di chiudere e prevenire situazioni prima ancora che si creino, dettando i tempi degli aiuti a tutti i suoi compagni. La sua duttilità, lo rende in grado di marcare e cambiare su ogni singolo ruolo avversario, dai playmaker ai centri.
Dove Green non arriva con l’intelligenza e con le letture, arriva con un temperamento decisamente sopra le righe. In campo è un vero diavolo, mettere pressione su tutto e tutti è il suo modo di fare. Trash talk, grida, insulti, falli tecnici. Draymond Green, prosegue nella tradizione dei grandi difensori della storia NBA, da Payton a Rodman, passando per gente come Artest, con un carattere fumantino e indomabile, ben conscio di giocare sempre sul filo del rasoio. Nell’unica serie di finali persa negli ultimi quattro anni, fondamentale fu la sua squalifica, proprio per somma di falli tecnici, in una delle sette gare della serie. Anche quest’anno ha avuto comportamenti al limite, ha rischiato più volte l’espulsione, si è attirato le antipatie di tutti i tifosi avversari che in lui da sempre vedono un giocatore sporco. Ma ha vinto ancora ed è riuscito, con le buone e con le cattive, a limitare il giocatore più forte di tutti. Qualche merito gli dovrà pur essere riconosciuto.
Fosse nato e avesse giocato negli anni ’90, questo Draymond Green sarebbe stato un perfetto Bad Boy, uno in grado di far scintille ogni sera. In una NBA sostanzialmente diversa, più affinata tecnicamente e molto più attenta ai comportamenti e alla sostanziale correttezza del gioco, Green spicca ancora di più per i suoi modi plateali e vecchio stile. Golden State, nonostante lo smisurato talento di Curry e Durant, nonostante le triple e l’applicazione difensiva di Klay Thompson, nonostante l’esperienza di Iggy, batte e vive al ritmo di Green: difende, attacca, si esalta, perde concentrazione, cade e si rialza come il suo numero 23. Probabilmente non vincerà mai il premio di MVP delle finali, perché la difesa non fa vendere i biglietti, ma questa squadra è sua più di ogni altro.
Green è l’esempio di come si possa diventare fondamentali anche senza un atletismo insensato alla LeBron, senza le mani vellutate di Durant, senza il genio di Curry. Con il lavoro quotidiano e sfiancante, con l’intelligenza e l’applicazione, con la capacità di leggere e capire quello che sta succedendo in campo e non come meri esecutori di schemi e visioni altrui. Non ho dubbi a ritenere che da qui a qualche anno, quando questo ragazzo sarà già un sicuro Hall of famer, dopo averci regalato uno dei più grandi difensori della storia di questo gioco, egli si trasformerà, per forza di cose, in uno dei più grandi allenatori.
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