Francesco Tricarico: “L’arte è un modo di tornare alla vita” [INTERVISTA]
Dal 12 maggio al 10 giugno, il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, ospiterà la mostra di Francesco Tricarico dal titolo “Quando la musica si mostra. Una nota al museo” a cura di Olivia Spatola.
Sin dall’antichità – nella continua lotta fra l’essere e l’apparire, fra la miseria e la grandezza – l’uomo scopre di essere multiforme e acquisisce il desiderio di abbracciare sembianze diverse. La consapevolezza di non dovere assumere necessariamente soltanto un ruolo nella vita, è prerogativa di taluni, è una dote degli artisti. Cantautore, musicista, scrittore e pittore, Francesco Tricarico rientra a pieno titolo in questa privilegiata cerchia, dove la finitezza dell’uomo non rappresenta un limite ma uno stimolo costante. In occasione della personale dal titolo “Quando la musica si mostra. Una nota al museo”, abbiamo voluto indagare principalmente l’aspetto pittorico di Francesco Tricarico. L’intento di “Quando la musica di mostra. Una nota al museo” è quello di far dialogare l’arte con la musica all’interno di uno stesso spazio che è al contempo sia fisico che metaforico: il concetto della musica in quanto segno espresso – scritto, di contenitore di significanti e di significati che suonano anche quando gli strumenti non sono sfiorati dalle dita del musicista. In questo spazio che potremmo definire del ‘silenzio cageano’, in cui lo spettatore ha la sensazione di ascoltare qualcosa anche se tutto tace, che le opere di Francesco Tricarico andranno a mostrare in quale modo sia possibile controllare e organizzare le nostre percezioni. Le opere scelte sono 7, come 7 è il numero delle note musicali e 7 sono le sale del museo in cui il percorso artistico si dispiega. Ed è così che le stanze, abbandonando temporaneamente la loro consueta numerazione, diverranno – attraverso i dipinti dell’artista – la “Stanza del Do”, la “Stanza del Re”, la “Stanza del Mi”; la “Stanza del Fa”, la “Stanza del Sol”, la “Stanza del La” e la “Stanza del Si”. Ma non solo. In questo caso, il segno – ovvero la relazione tra significante e significato – rappresentato dalla denominazione delle stanze, diventerà anche simbolo: vale a dire una realtà altra, che va oltre e che è da ricomporre; l’espressione dell’inconscio collettivo da cui emergono processi di trasformazione tra ciò che è noto e ciò che non lo è, coinvolgendo lo spettatore. La “Stanza del Do” dunque – in questo gioco fra segno e simbolo – non sarà soltanto la sala in cui Francesco Tricarico omaggia la prima nota musicale, ma anche del Do-minus; la “Stanza del Re” del Re-gnare; la “Stanza del Mi” del Mi-stero; la “Stanza del Fa” del Fa-re; la “Stanza del Sol” del Sol-o; la “Stanza del La” del La-voro e la “Stanza del Si” del Si-lenzio, che chiude concretamente e allegoricamente la mostra.
Secondo Charles Baudelaire, l’arte è prostituzione. Per te, invece, cosa rappresenta?
Per me l’arte è un modo di tornare alla vita. In effetti è un po’ una prostituta in grado di farti innamorare nuovamente, poiché la prostituzione svela molte cose e ha il potere di abbreviare i tempi. Ma l’arte, per me, è principalmente un momento indistinto tra la vita e la non vita; è il luogo del riscatto e della rivincita; è comunicazione pura. La definirei ulteriormente attraverso l’immagine del salvagente: sei perso in mezzo al mare e l’arte viene in tuo soccorso, offrendoti la possibilità di comunicare con gli altri laddove gli strumenti ‘normali’ non ti appartengono e non per scelta, piuttosto per incapacità personale. L’arte, dunque, più che una prostituta è una grande innamorata, una sposa fedele.
Da dove nasce il tuo processo creativo?
È frutto di una ricerca interiore unita a una esigenza di avere un dialogo con gli altri. Non è un semplice moto d’animo quindi, perché quest’ultimo non ha bisogno di un riscontro o di una approvazione. Io, invece, voglio che le mie opere siano universali, portatrici di una bellezza condivisa. Nel mio lavoro, non seguo una ritualità anche se mi piacerebbe ci fosse; l’ho sempre cercata ma non me la posso permettere nel senso di organizzazione del tempo: sono molto eclettico. A volte ci sono dei periodi in cui non dipingo e – senza preavviso – riemerge una forte tensione interiore che mi porta ad avere un bisogno quasi fisico di prendere in mano pennelli. A quel punto, tutto si ferma e tutto è al contempo in confusione: c’è un grande ordine in un grande disordine. L’importante resta il fine, l’opera: come ci arrivo – se vado a dormire all’alba alzandomi comunque presto e una serie di altre cose – giustifica la messa a fuoco di quel momento.
Dipingere è per te un tentativo di fuga o un modo di essere ed esserci nella realtà?
No, non è assolutamente una fuga, non mi piace fuggire. È un senso di bellezza e di stupore: mi piace vedere ciò che sulla tela diventa realtà, una realtà interpretata e mediata dal mio corso dei pensieri. L’opera cattura un attimo, un momento che per natura non si fermerebbe e che invece si ferma. Non so mai come e quando finirò un quadro, è tutto sempre in movimento e in continua evoluzione. La pittura è la mia salvezza, mi dà gioia: forse una gioia non perduta ma una felicità che vuole e pretende di tornare a manifestarsi nella vita. Un incanto continuo.
Francesco Tricarico è un autodidatta per definizione, anche se non ama molto questa parola. Il suo primo approccio alla pittura risale all’epoca delle scuole medie quando – durante le lezioni di educazione artistica – era solito riempire con il colore gli spazi creati dalle linee diagonali e curve disegnate sul foglio. Con quel gesto, Francesco Tricarico non andava soltanto a riempire l’area designata dalla matita, ma piuttosto un vuoto interiore: lo spazio dell’anima.
In quel periodo mi trovavo a fare dei pensieri enormi per la mia età, che forse avrei dovuto affrontare più in là. Ma siccome già li affrontavo, riempire quegli spazi con del colore mi dava la giustificazione di essere momentaneamente lontano da tutti i miei amici. Mi sentivo in qualche modo in difetto poiché non potevo condividere con loro alcuni argomenti: la morte di mio padre, principalmente. Colorare, dunque, diveniva un modo per riflettere sulla mia solitudine. Ricordo molto bene quei pomeriggi e il senso di protezione che la pittura mi dava. Mio padre era un aviatore, un uomo bellissimo venuto a mancare quando avevo soltanto tre anni. Sono cresciuto guardando le sue foto e confrontandomi sempre con questo sentimento di mancanza. La vita è effimera, quello che c’è oggi non ci sarà domani. Forse è per questo motivo che sono affascinato da tutto ciò che non si può vedere e che resta in eterno: dopo la morte non so cosa ci sia e non so dove sia andato mio padre. Ma questa mancanza – che era dolore – ha generato quel tipo di solitudine inteso come un momentaneo modo di essere libero, per creare e immaginare: nella solitudine ho incontrato la ‘grande musa’, l’arte. E nell’arte, mi reputo un mezzo dell’umanità e in funzione di tutto. La pittura mi ha consentito di farmi comprendere dai miei fratelli uomini, dandomi così un senso nuovo di appartenenza collettiva e di fiducia che avevo perso.
Cos’è il talento per Francesco Tricarico?
Ho sempre pensato che sia tanto lavoro dietro al talento. Forse più che nel talento, credo nell’intelligenza che spinge le persone a capire le loro capacità. Ecco, credo nell’intelligenza di capire ciò che si vuole fare. C’è lavoro, c’è talento… le canzoni si scrivo da sole? No. Le canzoni si scrivono dopo che hai provato a elaborarne cento, poi diventa più semplice. Sono un po’ scettico sul talento, sul concetto di genio. Credo ci sia molto lavoro, ripeto, nella perseveranza. Il talento è una grande fregatura, è accademismo, un modo per farti buttare la spugna ancor prima di aver giocato. Inorridisco quando sento ‘io non canto perché sono stonato o non disegno perché non sono capace’, chi te lo ha detto? Chi ti ha fatto così male da dirtelo? Perché c’è un periodo in cui credi nei tuoi sogni e alcune frasi possono ferire. A parer mio, servirebbe una formazione diversa: non esistono incapaci, non esistono stonati, è un modo per selezionare e per dirti che non farai mai nulla. È tremendo tutto questo. Io sono stato fortunato perché le mancanze mi hanno reso libero: nessuno mi ha mai dato dell’incapace. E comunque no, non credo al talento.
Arte classica o arte contemporanea? Musica d’autore o attuale?
Mi piace di più l’arte classica e adoro l’arte contemporanea quando è classica. Lo stesso vale per la musica. Quello che preferisco è sicuramente quando vedo un gesto di onestà, di lavoro, di dedizione e di riscatto: nella classicità vi era sacrificio e mi piace il concetto di andare al di là dell’edonismo, della vanità. Oggi – talvolta – l’arte contemporanea permette di fare cose come nella canzonetta di adesso: consente al nulla di diventare emozione, una prostituzione di cui è complice anche l’ascoltatore. Ne resto inorridito poiché non capisco cosa sia diventata la musica, oggi. Bisogna amare l’umanità per scrivere canzoni, altrimenti non ha senso. La musica rimane una scultura uditiva e invisibile, per quanto mi riguarda.
© Foto di Nino Saetti
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