Haben costretta a partorire in catene
Quella di Haben è solo una delle recenti storie che raccontano da vicino la realtà della tortura e della violenza subita dalle vittime di guerra, prigionieri e minoranze, soprattutto in Nord Africa e in particolare l’area tra l’Egitto, il Sudan e l’Eritrea, è la zona prescelta per i trafficanti di esseri umani.
La ragazza africana è stata catturata e incatenata da un gruppo di predoni che pretendevano un riscatto di 35 mila dollari da suo marito, torturata nonostante fosse in cinta di nove mesi, è stata costretta a partorire con le manette ai polsi e a tagliare il cordone ombelicale con pezzi di ferro arrugginiti, rinchiusa insieme ad altri prigionieri, terrorizzata e tramortita è fortunatamente sopravvissuta.
Le zone di confine in Africa sono aree dove accadono eventi terrificanti, orrendi. Terre di mezzo in cui regna caos e anarchia, in cui gruppi di predoni e militari collusi possono agire indisturbati nei confronti di fuggiaschi, prigionieri politici o vittime di guerra che attraversano i confini degli Stati in cerca di asilo e aiuto.
Quello dei trattamenti inumani e degradanti è un problema internazionalmente sentito di cui si stanno occupando osservatori e interventi di volontariato umanitario di diverse organizzazioni internazionali.
La violazione dei diritti umani in Nord Africa raggiunge livelli allarmanti per la gravità delle violenze messe in atto. Raccontate dalle testimonianze di alcuni prigionieri sopravvissuti, le atrocità prendono voce attraverso le loro parole: «Mi appendevano dalle braccia, e mi capovolgevano dalle caviglie. Mi picchiavano e frustavano la schiena e la testa con una frusta di gomma. Mi percuotevano sulla pianta dei piedi con tubi di gomma. Mettevano acqua sulle ferite e poi le colpivano. A volte mi davano scariche elettriche, mi bruciavano con ferri roventi, e versavano su schiena e braccia gomma e plastiche fuse. Minacciavano di tagliarmi le dita con delle forbici. A volte arrivavano nella stanza, portavano le donne fuori, e poi potevo sentirle urlare. Tornavano in lacrime. In quegli otto mesi, ho visto sei persone morire per via di queste torture ».
Così racconta un 17enne eritreo rapito nel 2011 nel Sudan Orientale, è stato portato dai trafficanti in Sinai, liberato solo in seguito al pagamento di un riscatto di 13 mila dollari da parte dei parenti, dopo aver subito violenze reiterate per otto mesi.
Questa è invece la testimonianza di un 23enne eritreo rapito nei pressi del campo profughi di Shagarab nel 2012: «Mi picchiavano con una sbarra di metallo. Mi versavano plastica fusa sulla schiena. Mi percuotevano le piante dei piedi e poi mi obbligavano a stare in piedi per periodi protratti di tempo, a volte per giorni. A volte mi minacciavano di uccidermi e mi puntavano una pistola alla testa. Mi appendevano dal soffitto così che le gambe non potessero raggiungere il pavimento, e mi davano scariche elettriche. Una persona è morta dopo essere stata appesa per 24 ore dal soffitto. Lo abbiamo visto morire». Deportato in Sinai, è stato trattenuto insieme ad una trentina di persone per sei settimane.
La collusione della polizia sudanese è descritta bene nelle parole del 28enne eritreo che è stato deportato in Egitto: «Arrivai a Kassala -in Sudan orientale-. La polizia mi fermò e mi portò in una loro stazione. Mi chiesero se avessi parenti all’estero e dissi di no. Il mattino successivo, la polizia aprì la porta e c’erano due uomini accanto a loro che mi guardavano. Parlo un po’ di arabo e ascoltai un po’ di quello che si dicevano. Uno degli uomini chiese ai poliziotti ‘Questi uomini hanno famiglie che possono pagarci?” e lui rispose ‘Sì’. Il giorno dopo la polizia ci portò a una macchina parcheggiata davanti alla loro stazione. Quegli stessi due uomini erano in macchina. La polizia mi disse di entrare in macchina e quegli uomini mi portarono nel deserto a circa un’ora di distanza».
Spesso i prigionieri detenuti dai trafficanti non finiscono qui il loro travaglio, dopo il pagamento del riscatto vengono fermati da forze dell’ordine di confine, accade con la polizia egiziana, e detenuti per mesi in condizioni inumane e degradanti nelle stazioni di polizia del Sinai, hanno affermato le vittime. Le autorità egiziane negano alle vittime di traffico umano i diritti loro spettanti in base alla legge egiziana del 2010 sulla lotta al traffico di esseri umani secondo cui dovrebbero ricevere assistenza, protezione e immunità dall’azione penale.
Invece, le autorità portano a loro carico accuse di reati d’immigrazione, e negano loro l’accesso a cure mediche, di cui hanno bisogno urgente, così come all’agenzia per i rifugiati dell’Onu, l’Acnur, che vaglia le domande d’asilo in Egitto. Le autorità egiziane hanno ripetutamente dichiarato che tutti gli eritrei intercettati in Sinai sono immigrati clandestini, non rifugiati, ignorando il fatto che dalla metà del 2011 il più delle vittime di traffico umano in Sinai sono state portate dal Sudan all’Egitto contro la loro volontà.
Le interviste sono state raccolte da Human Rights Watch ai superstiti dei trattamenti inumani e degradanti per mano dei trafficanti umani, purtroppo molti dei prigionieri non hanno avuto la stessa fortuna e sono deceduti in condizioni inumane, oltraggiati dopo la morte e dopo aver subito continue torture.
La tratta umana trova profitto anche dal traffico di organi alimentando così un mercato dell’orrore di ingenti guadagni ed enormi proporzioni.
Eva Del Bufalo