L’Italia scivola verso un altro Governo tecnico?
Anche il terzo giro di consultazioni, come facilmente pronosticabile ex ante, si è chiuso con un nulla di fatto. La convergenza tanto attesa tra almeno due delle tre forze politiche riuscite a raccogliere più voti dalle elezioni del 4 marzo non si è verificata. La risposta del Quirinale alle varie opinioni espresse da tutte le compagini parlamentari si può sintetizzare nella seria intenzione di dar vita a un nuovo Governo tecnico: sarebbe il secondo in meno di 7 anni.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, preso atto della situazione di stallo, ha espresso tutto il proprio malessere per l’incapacità dei partiti di accordarsi e scendere a compromessi. La sua proposta? Un Governo neutrale in attesa che le forze politiche trovino la chiave per superare quest’impasse. Dopo una breve introduzione incentrata sul resoconto delle ultime settimane, il discorso del Capo dello Stato ha virato immediatamente sulle scadenze europee e sui vincoli che legano l’Italia all’eurozona, arrivando a presagire che una nuova tornata elettorale nel mese di luglio rischierebbe di mettere in serio pericolo la nuova legge di bilancio.
Ma che significa Governo neutrale? Sostanzialmente nulla, dato che qualsiasi esecutivo si ritroverebbe a rappresentare giuridicamente una collazione d’interessi tesa ad avvantaggiare alcuni soggetti piuttosto che altri: sotto il profilo teorico nessun Governo può veramente dirsi “neutrale”. Quali interessi si preoccuperebbe piuttosto di difendere l’esecutivo di garanzia evocato da Sergio Mattarella? Per scoprirlo basta sfogliare la lista dei papabili candidati ventilati dalla stampa negli ultimi giorni: Carlo Cottarelli, entrato in orbita Governo come commissario alla spending review quando a Palazzo Chigi sedeva Enrico Letta, nemico assoluto della spesa a deficit e difensore ortodosso delle misure di austerity imposte dall’UE; Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale dal 2014, allieva di Onida e affatto critica nei confronti dell’UE; Elisabetta Belloni, Segretario generale del Ministero degli Esteri dal 2016 portata alla Farnesina dallo stesso Gentiloni.
Una cosa è certa, se con il voto del 4 marzo gli italiani si erano espressi fortemente per una rottura dell’ancien regime legato a folli vincoli europei (spesso applicati oltremisura da classi politiche asservite alle elites), a un’unione monetaria deleteria e a politiche sull’immigrazione senza alcuna logica, i successivi 64 giorni hanno svelato il vero scopo della Legge elettorale recante il nome di Ettore Rosato: impedire la formazione di un esecutivo abbastanza forte per opporsi alla disapplicazione della nostra Costituzione in favore delle politiche deflazioniste provocate da Maastricht.
Nel 2011 l’allarme suonò per via dello spread, presentato come un pericolo fatale attraverso ogni singolo mezzo d’informazione: dopo la minaccia arrivò Mario Monti, ma ciò non servì di certo a placare la crescita del nostro debito (+30% sul nostro rapporto debito/pil dal 2011 a oggi). In assenza di tale minaccia (oggi il differenziale tra i nostri btp e il bund tedesco si attesta sotto il 130) il nuovo escamotage mediatico verte prevalentemente sulle cosiddette clausole di salvaguardia, che altro non sarebbero che norme (introdotte per la prima volta dal Governo Berlusconi nell’estate 2011 con decreti n.98 e 131) mirate al rispetto dei vincoli UE al bilancio. Il mancato rispetto di queste ultime implicherebbe lo scatto automatico dell’IVA, lo stesso citato da Mattarella durante il suo discorso di lunedì.
Dov’è l’inganno, il frame mediatico? Quelle norme furono elaborate in un altro contesto socio-economico, un contesto nel quale la nostra posizione debitoria netta sull’estero era fortemente a rischio, mentre oggi è fortemente diminuita attestandosi al 6,7% del PIL. Ecco l’urgenza, la minaccia con cui aggirare la chiara indicazione elettorale (di rottura) espressa dal popolo italiano: un ipotetico aumento dell’IVA che il nuovo Governo erediterà dal Governo Renzi, il quale aveva fissato nel 2015 la necessità di rivedere la spesa, per 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 22 miliardi dal 2018. Ad oggi il risultato finale è un aumento automatico delle imposte indirette pari a 19,6 miliardi dal 2018.
Le clausole di salvaguardia altro non sarebbero quindi che leggi tese a impegnare il futuro esecutivo a consolidamenti fiscali sulla spinta del credo economico (ormai drammaticamente diffuso) secondo il quale sia possibile diminuire il rapporto debito/pil grazie a meri tagli della spesa. La sovranità, nonostante dare la caccia ai populismi costituisca la moda del nostro tempo, appartiene al popolo e quest’ultimo il 4 marzo si è espresso in totale controtendenza rispetto all’ultima uscita di Sergio Mattarella. Ci vuole più spesa pubblica e più deficit, basta austerity e politiche economiche a senso unico.
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