Lampedusa, al Piccolo Eliseo migranti, speranza e umanità
In un momento storico in cui il l’Europa si trova a dover affrontare la più imponente migrazione di massa che la storia conosca dopo l’esodo della Seconda Guerra Mondiale, nella più completa inettitudine e inefficacia delle politiche comunitarie, la produzione teatrale e artistica in generale non può rimanere indifferente davanti ad un fenomeno di tale portata. L’arte, almeno quella, ricorda al mondo intero che dietro lo sciacallaggio mediatico di questo “fastidioso problema” ci sono delle persone, degli esseri umani con caratteristiche e sentimenti esattamente uguali a quelli di tutti gli altri che, semplicemente, rischiano il tutto e per tutto per sfuggire a morte certa. Finalmente sul palco del Piccolo Eliseo dopo tre anni dalla sua prima rappresentazione nel Regno Unito, fino al prossimo 18 febbraio sarà in scena Lampedusa, intenso testo del britannico Anders Lustgarten e qui diretto da Gianpiero Borgia.
La scenografia e la struttura dello spettacolo sono essenziali e per questo ancor più potenti: una sorta di faro/boa galleggiante accompagnato da un sapiente gioco di luci, fa da sfondo ai due monologhi alternati dei bravissimi Fabio Troiano e Donatella Finocchiaro. Lui un pescatore siciliano che ormai da tempo non tira più in barca pesce, ma solo i corpi gonfi e sfatti dei profughi annegati in mare; lei un’amareggiata italo-marocchina che lavora per una società di recupero crediti, diventata cinica a forza di avere quotidianamente a che fare con la disperazione altrui. Due storie e due vissuti completamente diversi, ma che in qualche modo si legano e si intrecciano, avendo in comune non solo l’umanità disperata con cui sono costretti a trattare per “lavoro”, ma soprattutto il barlume di speranza che quell’umanità ai margini custodisce. Dietro ai “muri che pensavamo di avere abbandonato alla memoria della storia e che invece tornano ad erigersi con prepotenza” fortunatamente ci sono ancora le persone, la gentilezza e la generosità d’animo, l’altruismo, la disponibilità, i sorrisi confortanti, la pura gioia di ritrovarsi e stare insieme, la sopravvivenza della speranza malgrado ogni tragedia. Tutto ciò che ci resta ancora di umano e che spezza con forza quella barriera di odio, rabbia, paura e diffidenza che il populismo politico ci vorrebbe far credere troppo alta da superare, a favore dell’egoismo e dell’anacronistica difesa dei confini.
Nella veemenza del pugno allo stomaco dei racconti di morte e risentimento di Troiano e di quelli di angoscia e desiderio di riscatto della Finocchiaro, Lampedusa diventa emblema geografico di speranza, l’approdo metaforico di ogni migrazione, quel faro a cui migliaia di individui sognano di arrivare dopo aver conosciuto tutte le disgrazie umane e provato ad attraversare quell’impietoso “deserto blu” per ricominciare, semplicemente, a vivere. “Noi non ci fermeremo mai!” è quello che urla un migrante nigeriano sul molo dell’isola, a ricordare a tutti che guerra e miseria hanno prodotto una congestione di traffico umano e un flusso migratorio, purtroppo e per il momento, inarrestabile. Le notizie dei barconi in arrivo, dei corpi di migranti dispersi in mare, dei campi profughi ai confini d’Europa, sono talmente frequenti e ripetitive da aver assuefatto le nostre coscienze. Se ci si ferma un attimo a pensare all’indicibile dolore che si prova ad esser costretti a lasciare le proprie casa, la propria terra, i propri affetti, al fatto che l’esigenza di rivolgersi al mare rischiando la vita non è propriamente dettata da incosciente spirito d’avventura, che se si è pronti ad affrontare violenze di ogni tipo, stupri o pestaggi pur di partire, o se si guarda l’orrore e la disperazione negli occhi di queste persone, si può, forse, avere una vaga idea dello sconfinato lume di speranza che li muove.
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