Ieri Papa Francesco è arrivato in Birmania, primo pontefice della Chiesa Cattolica Romana a visitare il paese del sud-est asiatico. Ad attenderlo, all’aeroporto della capitale Yangoon, c’era una fitta delegazione di autorità locali che hanno accolto il pontefice per introdurlo, da subito, nell’ambiente estremamente problematico in cui si troverà a passare i prossimi giorni. Oltre alla classica coreografia popolare c’erano i vescovi, un ministro e cinque generali dell’Esercito che in Myanmar contano un bel po’. Il pontefice avrebbe dovuto incontrare il solo generale Min Aung Hlaing, comandante in capo delle forze armate birmane, ma si è trovato di fronte una bella rappresentanza dell’Esercito che ha governato il paese dal 1962 al 2015 e ancora ha un potere soverchiante nei confronti delle altre istituzioni politiche, peraltro ampiamente “infiltrate”. Il paese è in una fase di transizione politica dal potere militare a quello civile, quindi l’incontro con le forze armate è d’obbligo se il sommo pontefice intende portare a termine la sua missione.

Ad attendere Papa Francesco c’erano poi anche i vescovi e, prima dalle notizie trapelate dopo l’incontro e poi dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa, si è saputo che hanno chiesto al pontefice di non pronunciare nemmeno la parola “Rohingya”, che definisce una minoranza etnica che parla l’omonima lingua e pratica l’islam, in un paese a grande maggioranza buddista, che è oggetto di feroci persecuzioni, già condannate dalla comunità internazionale in particolar modo dagli USA. Risulta che nella parte occidentale della Birmania negli ultimi dieci anni siano stati distrutti circa 3000 villaggi abitati dai rohingya con conseguente creazione di una popolazione di oltre 600.000 profughi. La situazione dei cristiani è la seguente: sono più o meno il 4% della popolazione e di questi i cattolici sono un quarto, la stragrande maggioranza è protestante. Quindi i cristiani non si sentono tanto sicuri nel dare appoggio incondizionato ai rohingya forse per timore di future plausibili ritorsioni. I vescovi del Myanmar, concentrati sui problemi locali, hanno quindi chiesto al Papa di Roma di essere moderato da questo punto di vista, anche se l’intenzione ferma di Francesco pare quella di difendere dei valori universali; che sia retorica o meno il fine dichiarato della sua visita è quello di “essere vicino ai poveri ed agli emarginati”, ma anche di incontrare esponenti politici e religiosi per lavorare alla pace considerata “un punto di sintesi e di partenza per la democrazia”.

Questa mattina Papa Francesco ha incontrato il capo di governo Aung San Suu Kyi, già premio Nobel per la pace per i suoi 19 anni di arresti domiciliari e diventata capo dell’esecutivo dopo le elezioni del 2015. Lo scenario che si trova di fronte il pontefice è di quelli complicati, e pure tanto. Tensioni religiose, etniche ma soprattutto politiche, in uno scenario istituzionale in cui l’equilibrio di poteri è fortemente sbilanciato verso le forze armate e solo la sua figura e carisma internazionale a dargli potere e forza, dato che i cattolici in Myanmar sono una piccola minoranza.

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