La deriva xenofoba della politica italiana
Fa ancora un caldo tremendo nelle nostre città. Quella che sta per chiudersi verrà ricordata come una delle estati più torride degli ultimi anni. L’estate della siccità, dell’emergenza idrica; l’estate degli incendi e della strage di Barcellona. L’aria è pesante e umida, ti si appiccica addosso come uno strato di plastica che ti impedisce di respirare. Le città stanno tornando lentamente alla vita quotidiana, ripopolandosi dei vacanzieri. Chi ha passato l’estate lontano dai luoghi di villeggiatura, dove tutto è più leggero e semplice, sa perfettamente cosa capita nelle grandi città quando si svuotano e vengono strette dalla morsa del caldo afoso. Zanzare, mosche e topi emergono dai loro letarghi. Escono dai loro rifugi in cerca di aria da respirare e qualcosa di cui nutrirsi. Ma l’acqua è poca per tutti, il caldo e l’afa soffocante rendono ogni gesto molto più difficile e stancante, la mente rallenta i pensieri come a risparmiare ulteriore energia. Le mosche impazzite si attaccano alla pelle sudata e sono pressoché impossibili da debellare, attratte dal puzzo delle nostre città. Ora che sono vuote si sente molto di più. Quell’odore che, per qualche ragione, l’inverno nasconde. È un misto di umido, terra secca e polvere, marciume e immondizia lasciata a decomporre sotto il sole e il caldo. Il crogiolo ideale per parassiti, mosche e altre bestie che si nutrono degli scarti.
Così come le mosche, anche l’uomo lasciato alla solitudine della propria mente impazzisce nelle afose giornate di agosto. Per sfogare la frustrazione data dal caldo, l’uomo si butta a rovistare nei propri escrementi, tra gli scarti della società in vacanza. Quel briciolo di falsa umanità che aveva dovuto conservare durante l’inverno, viene spazzato via. Ora può sfogare i suoi istinti coprofagi rivelando a tutti ciò che è realmente: una zanzara, una mosca appiccicosa, uno sporco e puzzolente topo di fogna, un razzista.
Il razzista è fatto così. In un contesto sociale normale, quando si ritrova in mezzo a persone comuni e che non conosce, il razzista rimane nascosto. Resta lì rintanato nella sua fogna, tra la sua stessa merda, timoroso del giudizio della gente. Ma quando quella gente non c’è e le feci di cui nutrirsi scarseggiano, eccolo uscire dal proprio rifugio. La città deserta è il suo regno. Può dare sfogo ad ogni istinto represso ora che è lui il padrone del nulla. Può muovere la sua folle e insensata guerra contro il diverso. Lui (il topo, il razzista) si sente superiore agli altri. Superiore ai suoi concittadini troppo “buonisti” per affrontare il reale pericolo che li minaccia. Superiore ai “negri” culturalmente inferiori a lui e che mettono a repentaglio l’integrità culturale di cui si fa vanto. E a noi umani tocca convivere con questi nostri lontani parenti, mezzi uomini mezzi roditori, in attesa e nella speranza della loro estinzione.
O almeno così era prima di qualche tempo fa. Qualcosa è cambiato. Il caldo eccezionale, un’estate lunga, il clima pesante. I topi hanno preso il sopravvento. Sono ovunque adesso. Già da qualche tempo, qualche pantegana meglio nutrita di altre aveva cercato di prendere il controllo della società umana, portando la stirpe dei roditori razzisti al vertice della catena alimentare. Gli insuccessi, per fortuna, erano stati però più dei successi e questo li aveva frenati. Ora sono tanti, forse troppi da arginare. Hanno per lo più preso sembianze umane, li potete trovare con le fasce tricolore alla spalla, seduti alla poltrona di qualche ministero oppure chiusi nelle divise estive disegnate da ricchi stilisti. Hanno imparato a suonare le giuste note del flauto che li aiuta ad attrarre gli altri topi, quelli meno nutriti di loro. Li puoi riuscire a vedere nelle strade, nei programmi televisivi, tra le notizie del telegiornale. Le pantegane suonano la loro marcetta, i topi le seguono ripetendo le solite cantilene.
Il grido di “restiamo umani” non significa più niente per loro. L’umanità non ha alcun valore per i topi razzisti. Per loro conta l’italianità. Una parola inventata da loro (stupefacente per dei roditori) che però non ha molto significato. O meglio, ne ha diversi, a seconda dell’occasione in cui viene utilizzata. L’italianità può identificare la presunta precedenza di cui debbano godere gli italiani nel fruire di certi diritti, ad esempio. Ecco che quindi, il diritto ad avere una casa e un tetto sotto cui ripararsi viene subordinato sempre alla nazionalità di chi questo diritto lo rivendica. Con l’ovvio riferimento a ciò che sta avvenendo in questo periodo, soprattutto a Roma, dopo i fatti di piazza Indipendenza, vorrei mettere le mani avanti, aspettandomi già le sagaci risposte del tipo “dobbiamo tutelare la proprietà privata”, oppure “quelli lì chiedevano 10 euro al mese per ospitare le famiglie nello stabile occupato”. Ovviamente i nostri roditori razzisti non usano questo linguaggio. Ma per praticità e per buona educazione ci permettiamo di doppiarli con un linguaggio civile. La domanda da porsi è: può un millantato diritto di proprietà essere superiore al diritto d’asilo di cui godevano, nel caso particolare, le donne e gli uomini trascinati in strada all’alba del 24 agosto?
Il fatto che nessuno, o quasi, si sia posto questa domanda è proprio ciò di cui hanno bisogno le grasse pantegane e la loro schiera di ratti xenofobi. Quando si pongono dei diritti comuni ad un livello superiore a quelli che invece sono diritti inalienabili, il senso stesso di una comunità fondata (teoricamente) sulla parità di tali diritti viene meno. Quando quegli stessi ratti fascisti ci ricordano che Mussolini creò case popolari, le pensioni, le scuole (etc etc) andrebbe ricordato loro che da tutte queste belle cose erano esclusi gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari, i dissidenti politici e tutta una serie di categorie non gradite al benefattore pelato di Predappio. Oggi siamo davanti a quella stessa situazione. Esistono categorie di esseri umani che non sono gradite a una buona parte della popolazione italiana. Categorie che, secondo i razzisti, non dovrebbero avere una casa, non dovrebbero godere dell’assistenza sociale, non dovrebbero avere un lavoro (almeno non uno che sia gradito all’italiano), non dovrebbero sedere negli stessi banchi in cui siedono i piccoli cuccioli di topo. Le grasse pantegane continuano quindi a banchettare, cibandosi dell’ignoranza e dell’insensata rabbia xenofoba. Più ne mangiano e più ne hanno bisogno. Più il loro bisogno cresce, più istigano quella rabbia e la fomentano. Questo è il loro nutrimento. Non sono in grado di articolare un pensiero politico che vada oltre la necessità di soddisfare la loro fame di rabbia. Mettere il più piccolo briciolo di potere nelle mani di questi animali segnerà il definitivo tramonto del sogno di una società giusta. L’unica soluzione è placare la rabbia, cercare di porsi le domande giuste e trovare le risposte. Nessuna pantegana ha mai saputo risolvere un problema.
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