Libere dall’Isis: il difficile ritorno a casa delle ex-schiave yazide

 giornalista del New York Times, ha avuto modo di conoscere Souhayla, una delle ex-schiave yazide liberate dall’Isis dopo la riconquista di Mosul, e attraverso la sua testimonianza, raccontare il drammatico ritorno alla normalità delle donne appartenenti a questa minoranza etnica dopo anni di schiavitù. Sedici anni, Souhayla ne ha trascorsi tre prigioniera nella città irachena, schiava di un miliziano dell’Isis ucciso durante una delle offensive aeree per sottrarre la città allo Stato Islamico. Ad invitare la stampa nel campo profughi di Shariya, Iraq, è stato suo zio Khalid Taalo. «Questo è quello che hanno fatto alla nostra gente» ha detto Taalo ai reporter che si sono trovati di fronte una ragazza distesa su un materasso in terra, con una voce debolissima, incapace di alzare la testa e di mangiare o bere senza fatica. Dall’inizio dell’offensiva per la liberazione di Mosul, cominciata l’anno scorso, circa 180 donne, ragazze e bambine yazide catturate dall’Isis nel 2014 sono state liberate.

Nell’agosto 2014 oltre 400mila componenti della comunità yazida hanno dovuto abbandonare le loro case mentre Daesh conquistava ampie aree del territorio iracheno. Molti yazidi sono stati fatti prigionieri e giustiziati, migliaia di donne e bambine sono state ridotte in schiavitù. Chi è riuscito a fuggire si è rifugiato sulle montagne di Sinjar, per poi raggiungere i campi profughi della regione del Kurdistan iracheno. «Pensavamo che le donne liberate nei primi mesi di prigionia fossero casi difficili» spiega al New York Times Nagham Nawzat Hasan, un ginecologo che ha visitato oltre 1000 ex-schiave yazide, «ma le donne arrivate dopo la liberazione di Mosul lo sono molto di più»Dopo anni di prigionia e violenze sessuali, le ragazze come Souhayla mostrano sintomi psicologici gravissimi, appaiono «sfinite, incoscienti, in grave stato di shock», racconta il Dott. Hasan,  non riescono ad alzarsi per giorni, tanto da sembrare incapaci di svegliarsi.

Lo zio di Souhayla ha raccontato alla stampa di aver saputo per un anno dove si trovava la nipote, e da chi era ex-schiave yazidetenuta prigioniera. Tentare di salvarla però, sarebbe stata un’impresa troppo rischiosa. Nei primi due anni di prigionia Souhayla è stata violentata da sette uomini, prima di spostarsi nel cuore dell’area dopo imperversava il conflitto. Quando le cose per lo Stato Islamico si stavano facendo difficili, il miliziano che la teneva prigioniera le ha tagliato i capelli cortissimi. Secondo Souhayla, l’uomo intendeva presentarsi davanti alle forze militari irachene dichiarandosi un rifugiato, e portando Souhayla con sé. Altre donne tornate in libertà hanno mostrato invece segni di indottrinamento difficili da sradicare. È il caso di due sorelle yazide di 20 e 26 anni, che dopo la prigionia hanno rifiutato di svestire i niqab che le coprivano il volto, indumento che non fa parte della cultura yazida. Entrambe hanno definito i loro aguzzini come i propri mariti e «martiri». Anche loro, come il 90% delle donne yazide liberate, hanno mostrato forti segni di stress e shock. Sia Souhayla che la sua famiglia hanno chiesto ai giornalisti incontrati che la ragazza fosse identificata e fotografata per far luce sulla sofferenza provocata dalla guerra alla comunità yazida.

 

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