La critica letteraria più temuta d’America lascia il New York Times
Michiko Kakutani, la critica letteraria più temuta d’America, si è dimessa dal New York Times. Il vero motivo per cui avrebbe lasciato l’incarico – che ricopriva da quasi quarant’anni – sarebbe l’ascesa di Donald Trump. Oggi, desidererebbe scrivere saggi sull’attuale situazione politica americana. Questo, è quanto riferisce Vanity Fair.
Nata a New Heaven (Connecticut) nel 1955, Michiko Kakutani, si è laureata in letteratura inglese a Yale. Comincia la carriera da giornalista con il Washington Post, per poi passare, nel 1977, al Time Magazine. Ma è soltanto nel 1979, che riesce a realizzare il suo sogno di ridurre a brandelli i giovani romanzieri: comincia la fortunata era del ‘nero su bianco’ fra le pagine del New York Times. Michiko Kakutani, com’è noto – nei suoi sessantadue anni di vita – non ha mai goduto della fama di donna gentile né tantomeno buona. Famosa per le sue recensioni letterarie, con la sua penna, è stata l’artefice del destino di molti scrittori: l’ascesa verso l’olimpo dell’editoria o la discesa giù per l’inferno, nei territori della dimenticanza. Infatti, più che esser nota per gli articoli positivi, è celebre per le sublimi stroncature.
Quando a ottantadue anni, Norman Mailer, stanco di vedersi distruggere ogni riga dei suoi romanzi dalla temuta Kakutani, disse che l’assunzione di lei al New York Times era dovuta al “perché faceva parte di una minoranza” (essendo una donna asiatica) e che “odia gli scrittori bianchi”, la catastrofe era già avvenuta. Anzi, più di una dato che la Kakutami non ha mai apprezzato, neanche lontanamente, alcun libro di Mailer. Su The Spooky Art: Some Thoughts on Writing di quest’ultimo, infatti, scrisse: “Leggere questo libro dall’inizio alla fine, equivale ad un lunghissimo viaggio su un pullman, lungo una strada piena di buche, seduti accanto ad un passeggero che non smette mai di raccontare, che non dorme mai, che non si ferma nemmeno per respirare e che non ha in testa la valvola della censura”. Stesso destino è toccato a Franzen nel 2006 con Zona disagio: “Nelle sue nuove memorie, il sig. Franzen volge il suo sguardo spietato su se stesso e riesce a darci un odioso ritratto dell’artista da somaro: petulante, pomposo, ossessivo, egoista e incredibilmente egocentrico”. Ma di freddure ne ha ricevute anche lei. Resta indimenticabile, infatti, la risposta che lo scrittore Gore Vidal, le diede alla domanda se odiasse gli americani: “No, odio il New York Times. Forse lei non lo sa, ma non sono la stessa cosa”.
Vai alla home page di LineaDiretta24