Parlare di sport al tempo delle guerre e degli attentati
Parlare di sport quando negli occhi si hanno ancora le immagini tremende di Manchester, quando hai visto una tragedia infame che ha colpito i ragazzi che si stavano divertendo, quando hai visto i visi di quelle bambine e pensi che non ci sono più. Come si fa a parlare di sport, dell’inutile e del superfluo sport? Come si fa a parlarne quando ci sono le guerre, quando i bombardamenti uccidono quotidianamente bambini in posti lontani da noi e solo per questo ci colpiscono meno, come si fa a parlarne dopo attentati e dopo tutte le brutture del mondo? In effetti è difficile. Sicuramente sarà stato difficile per i tifosi del Manchester Utd che ieri hanno giocato e vinto la finale di Europe League, ma proprio loro, più di chiunque, ieri avevano bisogno per due ore di pensare ad altro, di riuscire a spegnere il cervello per entusiasmarsi per una giocata. E ben venga che abbiano gioito. Non vuole dire dimenticare, vuol dire sopravvivere. O almeno, vivere. Si può, si deve anzi. Perché l’orrore si combatte con le intelligence, con la sicurezza e con le leggi, ma la vita delle persone dopo l’orrore ha bisogno di normalità. Di una distrazione, di qualcosa che ti rapisca per un breve tempo e ti distacchi dalle cose brutte. E lo sport in questo ha una grandissima forza, qualunque sport. Lo sport alle volte ha avuto perfino la forza di fermare guerre e insurrezioni o di riuscire dove la diplomazia aveva fallito. Parlare di sport quindi si può e si deve, e abbiamo scelto di raccontare delle storie particolari, anche antiche, nelle quali lo sport ha trionfato ed ha sconfitto il brutto.
Parlare di sport partendo da tutt’altro. L’Italia nel ’48 si stava ancora leccando le ferite per la fine della guerra, la Repubblica era appena nata e nel paese le lacerazioni provocate dal ventennio fascista erano ancora evidenti. Una calda mattina di Luglio il segretario del Partito Comunista Togliatti, accompagnato dalla sua nuova compagna Nilde Jotti (che scandalo per l’epoca!) finisce nel mirino di un giovane studente irpino, tale Antonio Pallante, un ragazzo che ha il terrore che l’Italia possa diventare un paese comunista. Decide quindi, per impedire che ciò avvenga, di uccidere il capo dei comunisti. Scarica 4 colpi dalla sua pistola, 2 centrano il bersaglio in maniera grave, uno addirittura alla testa, un altro lo sfiora solamente mentre il quarto non centra il bersaglio. Togliatti viene salvato, ma in quel paese che ancora ricorda bene le divisioni passate è la miccia che può far scoppiare una rivolta. Manifestazioni in tutte le città, alcune particolarmente violente con tanto di morti, ben 14. Nei due giorni successivi la situazione non si calma. L’Italia è sull’orlo della guerra civile. Ma da qualche gracchiante radiolina tre giorni dopo arriva dalla Francia la notizia di un’impresa. Il vecchio Gino Bartali, già trentenne e che non vince un Tour da 10 anni e che quest’anno non ha neanche una grande squadra, compie il capolavoro della sua carriera, sconfigge il rivale Coppi e nelle strade italiane la rabbia si trasforma in gioia. All’epoca il ciclismo è lo sport più popolare, che vive di racconti, e quindi di leggende, non c’è la tv, ma ci sono i resoconti dei cronisti e le radiocronache. E la notizia dell’impresa di Bartali trasforma le strade da campi di battaglia a caroselli di gioia, la rabbia e il dolore lasciano spazio alla felicità e alla spensieratezza. Perché è vero che poi ci son cose più serie a cui pensare, ma non ci si può pensare sempre.
Parlare di sport per raccontare la forza dello sport, che riesce ad arrivare dove tutte le altre forze in campo, sia militari che diplomatiche, hanno fallito. Perché succede che dei paesi si odino, ma magari due persone di quelle nazioni possono andare benissimo d’accordo. Possono avere passioni simili e magari, grazie a loro, anche quei testoni dei presidenti si possono accorgere che in fondo gli altri non sono mostri: sono come noi, solo un po’ diversi. Ma si innamorano, soffrono, ridono, gioiscono e si arrabbiano proprio come noi. Nixon e Mao non erano persone molto ragionevoli. Erano ambedue vittime della loro stessa
ambizione. Recitavano due ruoli diversi e complementari. I nemici. Capitalismo contro comunismo. Cosa c’è di più diverso? Ma, mentre i presidenti giocano alla guerra, può capitare che un cinese e un americano si ritrovino nello stesso posto a fare la stessa cosa. Il posto era il Giappone e la cosa che ambedue facevano (benissimo) era giocare a ping pong. Uno sport che in fondo un po’ snobbiamo, che non ci sembra neanche uno sport ma un gioco che fai l’estate al mare e poi da settembre dimentichi anche che esiste. Il tutto nacque per caso come tutte le cose belle. Glenn Cowan si stava allenando con un giocatore giapponese quando venne avvisato che il centro stava chiudendo e … il suo pullman se ne era già andato, lo avevano dimenticato lì. L’unico rimasto era quello della squadra cinese e quindi gli venne dato un passaggio. Zhuang Zedong era un giocatore della formidabile squadra cinese e cominciò a sentirsi combattuto. Le scuole del partito gli avevano insegnato che quello era il suo nemico, il male. Ma lui aveva visto solo un ragazzo che amava il ping pong, come lui. Dopo dieci minuti a macerarsi per decidere se dar retta al partito o all’istinto, decise per il secondo. Si avvicinò a Cowan e gli disse, aiutato dall’interprete, una frase destinata a fare storia: “Nonostante il governo degli Stati Uniti non sia amico della Cina, il popolo degli Stati Uniti è amico dei cinesi” e gli regalò, visto che aveva solo spillette di Mao e altra chincaglieria del Partito, un ritratto in seta raffigurante paesaggi cinesi. “Ti regalo questo oggetto come segno di amicizia dal popolo cinese a quello americano”. Cowan non aveva nulla con sé e allora gli regalò una sua maglia, con il simbolo della pace e la scritta “Let it be”. Trovarono ad aspettarli i fotografi, quasi increduli, che videro un atleta cinese e uno americano vicini e sorridenti. Che si scambiano regali! I giornalisti chiesero a Cowan se gli sarebbe piaciuto giocare in Cina e lui rispose di sì. La notizia fece il giro del mondo e Mao era ovviamente informato di tutto. Inizialmente non voleva dare il permesso a Cowan, ma poi si rese conto che la cosa avrebbe indubbiamente giovato all’immagine della Cina e invitò l’intera squadra. Dopo pochi giorni venne accordato il permesso alla squadra da parte del governo Usa e, eravamo nel 1971, per la prima volta dal 1949. Fu solo il primo di una serie di incontri che portarono poi le due nazioni a riallacciare i rapporti e i due presidenti a incontrarsi. Quei due testoni di Mao e Nixon probabilmente avrebbero continuato a minacciarsi e a mostrarsi i muscoli. Ma due ragazzi che amavano il ping pong se ne sono fregati e, grazie a loro, due nazioni sono riuscite ad avere rapporti un po’ più civili. Altro che gioco da stabilimento balneare.
Parlare di sport per raccontare una storia bellissima. Che forse è una leggenda, forse no. Non ci sono immagini o prove concrete. Ma ci sono i racconti e i diari dei soldati. Qualcosa di sicuro successe. E sarebbe bellissimo se quel che successe fosse proprio
questa storia qua. 1914, da qualche parte nelle Fiandre. I tedeschi e gli inglesi combattono come si combatteva allora. In due trincee a 50 metri l’una dall’altra. Per giorni e giorni si è combattuto, si è sparato, si è ucciso. L’aria è intrisa dell’odore della polvere da sparo e il puzzo orrendo dei cadaveri. Ma la mattina del 25 dicembre le cose sembrano diverse. E non essendoci spari sono effettivamente diverse. Per il giorno di Natale si stabilisce una tregua. Non si spara. Si tolgono i cadaveri da quei 50 metri che separano quei soldati e quelle nazioni. Sarà che non si sentono spari, sarà che l’aria è finalmente pulita, sarà che è Natale, ma quei soldati immersi nella morte da mesi hanno voglia di ridere, di vivere. Sorprendentemente sono i tedeschi a cominciare. Accendono candele, addobbano alla bell’e meglio un albero con quello che trovano, ovviamente, e cominciano a cantare cori natalizi. Cominciarono a uscire dalle trincee e si avvicinarono ai sorpresi inglesi che, però, vennero contagiati in fretta dall’allegria teutonica. I soldati che fino al giorno prima tentavano di uccidersi, familiarizzano, si mostrano l’un l’altro le foto delle mogli e dei bambini dai quali vorrebbero tornare. Gira qualche bottiglia, si danno pacche sulle spalle e poi, non si sa da dove, esce fuori un pallone. È subito Germania-Inghilterra. Campo neutro in uno spiazzo fangoso nelle fiandre. Cosa c’è di meglio per fingere un po’ di normalità? Un pallone di stracci, i pali con gli elmetti, un campo senza linee laterali e nessun limite di tempo. Come da bambini. I due comandanti non giocarono, si scambiarono la cortesia di un sigaro e seguirono la partita insieme. Il Capitano inglese Bruce annotò sul suo diario il resoconto di una partita incredibile. Sembra che vinse la Germania per 3-2. Perché notoriamente l’Inghilterra nelle occasioni che contano fallisce sempre. Ma loro erano entrati nella storia. Ci sono stati fatti film sulla partita della pace, Paul McCartney ci fece un video per una sua canzone e, nel 2014, l’allora Presidente dell’Uefa Platini inaugurò un monumento nel luogo (presunto) dell’incontro e lesse una delle frasi più belle tratte dai diari dei soldati: “Il pallone aveva rimpiazzato le pallottole, e per la durata di una partita di calcio l’umanità aveva ripreso il sopravvento sulla barbarie”. Anche nella città di Liverpool è stata celebrata la Partita della Pace con una bella statua. Perché lo sport può servire anche a questo. A farci sognare come bambini. E allora si può parlare di sport in occasioni come queste. Per essere vivi e non darla vinta all’orrore.
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