Il numero di suicidi in Giappone cresce tra gli under 24
Mentre il numero dei suicidi in Giappone negli ultimi dieci anni è calato a livello generale, quello dei minorenni che decidono di togliersi la vita è cresciuto rispetto ai dati del 2008. Dagli anni novanta il problema dei suicidi nel paese desta le preoccupazioni del governo; in particolare, il fenomeno si è aggravato dopo la recessione economica che ha colpito il Giappone nel decennio 1990-2000. Ma anche dopo la ripresa il numero di suicidi si è mantenuto alto, tanto da spingere il governo ad elaborare programmi di aiuto. Nel 2006, a questo scopo, una legge ha introdotto fondi agli enti locali per creare strutture di supporto psicologico. Il decreto “anti-suicidi” sembra aver dato buoni risultati, eccetto che per i più giovani, le cui casistiche restano ancora troppo poco indagate. Secondo i dati diffusi dalla polizia giapponese, 320 minori – due terzi dei quali maschi – si sono suicidati nel 2016. Tra questi, 12 erano alunni delle elementari, 93 studenti delle medie inferiori e 215 delle medie superiori.
La media annuale dei suicidi in Giappone, secondo gli ultimi dati disponibili forniti dall’OMS nel 215, è di 21,4 suicidi ogni 100.000 persone, 4 volte di più rispetto all’Italia. Circa il 70% dei casi riguarda gli uomini. Un numero che è valso al paese l’ottavo posto nella classifica dei paesi con i più alti tassi di suicidi. Nel 2010 era addirittura la principale causa di morte tra gli uomini di età tra i 20 e i 44 anni. Il fenomeno è talmente diffuso da aver reso celebre alcuni luoghi nel paese, come la foresta Aokigahara: uno dei posti più frequentati da chi decide di togliersi la vita e la stessa che, proprio per la sua triste fama, ha ispirato l’ultimo film di Gus Van Sant. In Giappone l’atto di togliersi la vita ha radici storiche, religiose e culturali. A differenza del cristianesimo, né lo shintoismo né il buddismo condannano moralmente il suicidio, che anzi è storicamente considerato un modo onorevole di morire. Per i samurai, era l’unico modo per uscire a testa alta da una sconfitta, mostrando tutto il proprio coraggio. Dimostrare quanto questa tradizione influisca sul fenomeno dei suicidi in Giappone è certamente difficile, se non impossibile, ma i suoi effetti sono leggibili nei dati statistici.
Fino agli anni 80 il suicidio era visto come un gesto nobile anche nella tradizione cinematografica. Un caso che dimostra i danni dell’esposizione a questi modelli culturali è quello della giovane star televisiva Miyu Uehara, gettatasi dal tetto del Sun Music Building di Tokyo nel 2011. Nello stesso anno si scatenò un’ondata di suicidi tra i giovani di tutto il paese. Tra gli adulti invece, è tristemente noto il fenomeno del “Karoshi” la morte collegata allo sfinimento per il troppo lavoro. Dopo l’ennesimo caso di suicidio per superlavoro, il governo ha messo mano a una riforma che prevede un tetto mensile medio di straordinari a 60 ore, con eccezioni di 100 ore per i mesi di grande domanda della produzione. Non è raro, infatti, che le imprese richiedano ai propri dipendenti di lavorare un numero di ore molto superiore alle loro possibilità. Il premier Shinzo Abe ha promesso di intervenire per rendere il lavoro più sano, anche se la riforma dovrà tenere in considerazione i timori per lo shock del mercato. Restano esclusi dal programma di prevenzione i giovani, più vulnerabili ai rischi: tra le cause principali bullismo e solitudine, mentre su internet si moltiplicano i siti dedicati a chi vuole togliersi la vita. Sia a livello governativo, che scolastico e familiare, il fenomeno continua ad essere troppo largamente sottovalutato.
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