Spunti e riflessioni sul Giulio Cesare di Baracco
Tutta la Redazione di Cultura e spettacolo di Parolibero è stata al Teatro Vascello di Roma per vedere e riflettere insieme sullo spettacolo Giulio Cesare con la regia di Andrea Baracco in scena fino al 2 Febbraio. Filippo Deodato ne ha scritto la recensione, ma anche gli altri redattori hanno cercato di sintetizzare in poche righe le loro impressioni. Ecco, in pillole, tutti i commenti…
Gianluigi Cacciotti. Al Teatro Vascello l’alto tradimento politico si veste di eleganza con l’adattamento in chiave moderna del Giulio Cesare di William Shakespeare. I cospiratori Bruto, Cassio e Casca vengono elevati a (in)coscienza sociale di una Roma ormai condannata al declino, mentre la figura di Cesare è ormai una poltrona scomoda su cui sedersi. Efficace l’introspezione psicologica di coloro che speravano di riscattarsi dall’ombra a cui l’eroe romano li aveva relegati, salvo poi scoprire che quella stessa ombra era l’unica ragione del loro “essere” politico. Macchinosa la movimentazione a pannelli/porte, ennesimo anacronismo storico che, al pari della giacca e cravatta, finisce per disturbare il monito shakespeariano contro l’ignavia politica, male dei suoi (e nostri) tempi. Godibile. Meritato il riconoscimento ottenuto al Festival Globe to Globe 2012 di Londra.
Valentina De Vincenti. Una rilettura cupa del Giulio Cesare shakespeariano. Il palcoscenico buio come i tempi corrotti di quella Roma imperiale. Tre porte e una sedia rotta, a simboleggiare probabilmente l’ambito trono. Lo spettacolo si concentra sulle amicizie e lo scontro politico, motore della morte di Cesare che viene solamente evocata. Questa scelta penalizza i personaggi minori, le vere vittime del complotto delle Idi di marzo e per lo spettatore appesantisce alcuni momenti della piéce soprattutto i monologhi, mentre la performance dinamica e coreografica degli attori incoraggia l’attenzione e compensa la scenografia fredda e minimale.
Giulia Lucchini. Giulio Cesare, la tragedia di William Shakespeare, racconta una società in via di estinzione. L’adattamento di Vincenzo Manna e Andrea Baracco, che ha curato la regia dello spettacolo, mette in scena anche attraverso una scenografia minimale (sullo sfondo solo tre porte) il clima di ansietà dell’epoca, argomento più che mai attuale. La società, colta proprio nel momento del proprio crollo e vittima del suo fallimento spirituale e politico, emerge attraverso la recitazione fortemente espressionista degli attori. Eccesso e lavoro di sottrazione vanno a braccetto nella rilettura in chiave moderna del Giulio Cesare di Shakespeare.
Lavinia Martini. Ma Cesare dov’è? Il suo nome, la sua voce, il suo spirito, da vivo e da morto, aleggiano sullo spettacolo di Andrea Baracco, che pure ha deciso con prepotenza di eliminare Cesare come personaggio fisico. Una scelta questa che si concilia bene con la riflessione sulla brama di potere, non sul suo raggiungimento, sull’ambizione del dominio, non sul dominio in quanto tale che la messa in scena invoca. È un desiderio cruento, selvaggio, scomposto che si riflette su una scena buia, come la Roma delle guerre civili, su maschere inquietanti, dalle movenze violente e aggressive. E nel momento in cui ci si aspetterebbe il massimo della tensione, il punto di svolta della storia, la scintilla che dà inizio alla guerra, l’orazione funebre di Bruto e Antonio, si realizza inaspettatamente l’esempio di maggiore sobrietà, equilibrio e al tempo stesso riuscito dialogo con il pubblico.
Arianna Arete Martorelli. Molto spesso nelle rappresentazioni teatrali la scenografia si adopera da cornice per l’interpretazione dell’attore. Il fondale statico e inerme offre il suo servizio aiutando l’attore a focalizzare l’attenzione del pubblico sulla recita. Nel Giulio Cesare di Andrea Baracco questa concezione standardizzata viene stravolta. Tutto il susseguirsi degli atti si svolge su uno sfondo nero, circondato da quinte dello stesso non colore. In questa tragedia gli attori sono accompagnati da oggetti, tutt’altro che inanimati; tutte le azioni che si svolgono sono sostenute, oltre che dalla bravura degli attori, dall’interazione magica tra i protagonisti e le “cose”. I cambi di scena a vista coinvolgono lo spettatore che vede e capta il mutamento della situazione grazie al fluido movimento degli oggetti che si modellano e plasmano l’attore, prendendo vita. Lampadine che rievocano il fuoco, porte che si prestano a essere mantelli dell’invisibilità, gessi di colore rosso dipingono il sangue, un bidone diventa un nascondiglio sicuro e una sedia squarciata si sostituisce, forse mal volentieri, alla morte cruenta di Cesare. Nonostante la normalità rappresentativa venga sconvolta, la percezione della storia non viene alterata in nessun modo. Una regia innovativa che riesce a stuzzicare la fantasia.
Eva Elisabetta Zuccari. Nella discussa rilettura del regista romano, il linguaggio contemporaneo si infiltra considerevolmente nel testo classico, armonizzando dialoghi tradizionali e abiti in pelle inequivocabilmente attuali, brani di musica classica e irruenti pezzi di sound elettronico. Sullo sfondo di una Roma cupa e aspramente attuale, abitata da un popolo Romano senza volto e senza alcuna voce in capitolo, personaggi e oggetti scenici si muovono istericamente nella coreografia di un incubo, quello vissuto da Bruto, Cassio e Casca, messi improvvisamente da parte dall’avvento di Cesare. La tragedia è uno spettacolo in penombra, in cui colori sempre tetri e un’illuminazione “caravaggesca” plasmano grottescamente i corpi dei congiurati, già deformati dalla mimica frenetica di rabbia. La violenza del singolo e della collettività diventa la vera protagonista di una scena in cui Cesare non fa mai il suo ingresso, limitandosi ad aleggiare come un’incombenza onirica che ossessiona il sonno dei congiurati e il pubblico, e che di volta in volta prende forma nel gioco di simbolismi con cui è costruita la messinscena.