All’ombra del Cavaliere morente
Con il decreto Letta del 27 novembre scorso, proprio mentre tutta l’attenzione era rivolta al ‘Cavaliere morente’ condannato in terzo grado a due anni per frode fiscale, si dà nuovo respiro alle banche attraverso ricapitalizzazioni delle quote di partecipazione a Bankitalia, privatizzata nella proprietà delle sue riserve auree, riserve di grande valore.
Si tratta infatti di 100 miliardi di euro, al terzo posto nel mondo per dimensione, dopo Stati Uniti e Germania. Il nodo del problema è: a chi appartiene la proprietà di queste riserve? Dal punto di vista giuridico tale patrimonio aureo dovrebbe appartenere al popolo sovrano. Determinarlo è di grande importanza, soprattutto in riferimento al travagliato dibattito sul significato economico-finanziario che ha la partecipazione dell’Italia dall’eurozona e, precisamente, su un eventuale collasso dell’euro a livello nazionale.
Il fatto che questa decisione sia passata in sordina, nel momento in cui la concentrazione delle istituzioni italiane e i riflettori dell’opinione pubblica erano puntati sulla decadenza di Berlusconi da senatore, la dice lunga sulla trasparenza relativa all’iniezione di capitale. Questo è stato distribuito ai due principali gruppi bancari azionisti e detentori delle maggiori quote di partecipazione a Banca Italia, Unicredit e Intesa San Paolo che, ad oggi, sono detentori del più del 50% del capitale. Di nascosto il governo Letta pare abbia fatto passare circa 900 milioni di euro senza sforare il 3% del deficit, di questi, 450 all’anno andranno a finire nelle tasche degli azionisti privati della Banca d’Italia. Ma come mai la governance ha azionisti privati? Come mai un istituto di diritto pubblico è controllato da banche private appoggiate a fondazioni direttamente controllate dai partiti?
Così infatti ha voluto Amato nel 1993, stabilendo la privatizzazione delle banche italiane attraverso l’attribuzione di quote di partecipazione e, dunque controllo, a fondazioni nominate da partiti.
E oggi il decreto Letta procede oltre su questa linea, stabilendo anche forme di esternalizzazione, quindi le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari.
Ma qual’è la storia di Bankitalia? La ritroviamo nelle parole di Lucio di Gaetano, un ex-dipendente: nasce nel 1893 ed è completamente detenuta da azionisti privati, all’epoca si usava così. Diventa pubblica sotto il governo fascista che espropria i suoi azionisti. Successivamente le quote del capitale della Banca di Italia vengono cedute alle banche, nel frattempo pubblicizzate a causa della crisi degli anni ’30. Nel ’93, a seguito della crisi finanziaria il governo Amato concepisce una prima forma di privatizzazione delle banche italiane. Il grosso del capitale viene quotato in borsa e di conseguenza, oggi, ci troviamo nell’azionariato della Banca di Italia, banche che agiscono con logiche di soggetti privati. E’ quindi da considerare un soggetto di diritto pubblico a compartecipazione privata? In passato la ripartizione degli utili prodotti dalla Banca di Italia è sempre stata riservata in minima parte ai suoi azionisti privati, non più dello 0,5 per cento delle riserve, che ammontano più o meno a 22 miliardi di Euro. Per cui anni buoni e anni cattivi non hanno consentito agli azionisti di prendere più di 50 – 70 milioni di Euro all’anno dal capitale della Banca di Italia, che non si è mosso dalla cifra originaria di 156 mila Euro con cui era stato valorizzato. Ora di certo questi soggetti privati hanno la meglio.
Ma la sovranità monetaria non dovrebbe appartenere al popolo?
Nel 2009 Jean Claude Trichet, allora Governatore della Banca Centrale Europea, espresse i suoi dubbi a proposito dell’oro presente nel patrimonio della Banca d’Italia, se esso non appartenesse al popolo italiano, piuttosto che all’Istituto centrale.
Autorevoli giuristi ed economisti su articoli comparsi sul Sole 24 Ore a settembre (in particolare Fulvio Coltorti e Alberto Quadrio Curzio), approfondiscono il problema della sussistenza di un diritto dominicale di Palazzo Koch sulle riserve auree, per rivalutarne la loro partecipazione.
Anche in riferimento ad una precedente legge miracolosamente giusta del governo Berlusconi che nel 2005 decide il passaggio allo Stato, entro tre anni, delle quote di partecipazione di Bankitalia detenute da soggetti privati, una legge che avrebbe tolto ogni dubbio giuridico rimasta, però, inattuata. Ma Letta, approfittando della distrazione dei cittadini, il 27 novembre, nottetempo, ha stretto ancor di più la privatizzazione di Bankitalia, con una clamorosa marcia indietro: il decreto Saccomanni stabilisce che la Banca di Italia non sarà più destinata a diventare un istituto di diritto pubblico detenuto dallo Stato, ma una public company, ovvero una società a azionariato diffuso con azionisti tutti privati. Inoltre, il capitale della Banca di Italia passerà dagli attuali 156 mila Euro a 7,5 miliardi di Euro, insomma nel progetto del governo Letta questo il limite dapprima fissato allo 0,5% , viene alzato al 6% del nuovo capitale sociale di 7,5 miliardi di Euro, vale a dire ben 450 milioni di utili distribuibili all’anno.
Non è cosa di poco conto: mentre i banchieri fanno festa, i cittadini vengono così, di soppiatto, frodati: quei 450 milioni, se non fossero dati ai banchieri privati andrebbero dritti nelle casse dello Stato. Ma il problema pare dunque relativo alla sovranità, in riferimento all’eventuale cessione di quote di partecipazione ad acquirenti comunitari, è una nuova forma di federalismo fiscale in ambito comunitario? In questo caso lo Stato italiano conterebbe ancor meno, in particolare la sua banca centrale nel sistema europeo delle Banche centrali.
Eva Del Bufalo