OPHELÌA: un viaggio nella follia incontaminata del pensiero
Antonin Artaud era del parere che il teatro è prima di tutto rituale e magico. Non è rappresentazione ma è la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile. E se crediamo alle parole del maestro, possiamo allora affermare che OPHELÌA – spettacolo scritto da Giacomo Sette e diretto da Gianluca Merolli – ne è la perfetta testimonianza. La follia, condizione clinica inafferrabile e che difficilmente può essere resa graficamente diviene, in questo caso, visibile e tangibile su di un palcoscenico caratterizzato da una scenografia proteiforme.
Quando ci si confronta con geni del calibro di William Shakespeare, è lecito avere qualche dubbio circa l’eventuale riuscita della messa in scena. Se poi si tratta dell’Amleto, una delle opere più controverse nella materia di storia del teatro, la situazione si complica inevitabilmente. Tutto ciò non è servito a mettere in guardia Giacomo Sette il quale, non soltanto ha deciso di rivisitare la tragedia shakespeariana più amata di sempre, ma addirittura di liberarla dalla figura ingombrante del protagonista affinché un personaggio minore potesse – riuscendoci pienamente – risplendere di luce propria. Non più un riflesso, non più una vittima incompresa: Ofelia (Giulia Fiume) è ora la regina della pièce. Il teatro è buio. Un mappando governa il palco. Una telecamera si insinua fra le stanze del plastico del castello di Elsinore: le immagini, proiettate in tempo reale su di uno schermo/sipario/tendaggio, catturano la quotidianità dei protagonisti in veste di pupazzetti Playmobil anticipando così l’arrivo degli attori. La sala è avvolta da un silenzio armoniosamente disturbante. Quando Ofelia fa il suo ingresso nel mondo, l’obiettivo della camera si sposta su di lei: ha le calze strappate, indossa un vestito nero e mostra dei fiori nei capelli. I suoi occhi sono grandi finestre che affacciano sul baratro.
“Mi chiamo Ofelia. E muoio tra cinque lune, sei soli, un atto, nove scene”, les jeux sont faits: da questo momento, tutta la storia sarà ripercorsa a ritroso. Decadente, sembra essere il soggetto di un sogno partorito da mente altrui, fra lo sconforto e la malinconia. Ofelia è dark. Ofelia è romantica. Ofelia è pazza. Incorniciata da una bellezza disarmante tale da “poter uccidere un uomo chiudendo gli occhi”, è così erotica che “farebbe l’amore con ogni cosa”. Ofelia non è sola, nessuno è solo poiché c’è sempre qualcuno nascosto dietro i tendaggi di Elsinore a spiare il corso degli eventi. Ed è proprio lì dietro che fa la sua prima apparizione una provocante, sensuale e lussuriosa Gertrude (interpretata da Gaia Benassi): l’ironia insita nei suoi dialoghi dà un carattere deciso e determinante alla riuscita dello spettacolo. E mentre il nostro udito viene piacevolmente accarezzato dalle composizioni musicali di Fabio Antonelli, veniamo trascinati nel caos di più personaggi (Amleto, Laerte) interpretati da un unico attore (Giuliano Peparini) e, sebbene sia ammirevole il tentativo del ritorno a un teatro di matrice greca, la performance non risulta pienamente riuscita: sublime la pantomima frenetica ed epilettica, meno la recitazione a tratti poco convincente. Quando la macchina attoriale viene messa in moto e il conflitto fra azione, inazione e contemplazione viene esplicato con continui paradossi del pensiero, giunge sul palco inaspettatamente la coscienza politica: Fortebraccio, re di Norvegia (Federico Le Pera). Il Fortebraccio di OPHELÌA è dotato di un senso dell’umorismo coinvolgente e le sue frasi – pronunciate sempre con sicurezza – sono contenitori di verità e di profezie. Ma c’è di più. Petto nudo e basso in mano, il re di Norvegia è sicuro del fascino che esercita sugli altri e il suo monologo, da semplici parole messe insieme, si trasforma in un urlo grunge.
La morte è ovunque, la si percepisce incessantemente e il “non essere fa paura”. Ofelia ne è ossessionata e nei ritornelli della sua follia, delizia il pubblico esibendosi in un canto straziante della tradizione popolare siciliana. La morte è languida. La morte toglie via il dolore. Ofelia libera i capelli dai suoi amati fiori e immerge la testa nell’acqua, nell’eau triste dei poeti. I suoi occhi restano aperti. Sembra una figlia di Narciso, colta nel suo ultimo atto di specchiarsi alla vita mentre si accinge a subire la metamorfosi dallo stadio umano a quello vegetale.
OPHELÌA non è semplicemente uno spettacolo teatrale. È un viaggio nella psiche, nei turbamenti e nei dolori di cui siamo vittime ogni giorno. OPHELÌA è attuale, così come lo è il nostro quotidiano. Un elemento che senza dubbio colpisce è lo stato di incertezza da cui si è impossessati mentre assistiamo alla messinscena, vale a dire il gioco degli attori. Gli interpreti non dimenticano mai di esser tali anzi, rendono il pubblico partecipe di ciò costantemente: assistiamo così a un passaggio fra due dimensioni, colto nel momento in cui l’attore sconfina nel personaggio e viceversa, fino a confondersi del tutto. Se l’intento di OPHELÌA era quello di recitare il dolore psichico, ovvero tutto ciò che è difficoltoso da rappresentare poiché non ha immagini, allora l’obiettivo è stato pienamente raggiunto.
© Photo courtesy of Tommaso Le Pera
Vai alla home page di LineaDiretta24