Filippine: 7000 morti per la campagna antidroga di Duterte
Da quando la campagna antidroga di Duterte ha preso il via con la sua elezione a presidente nel 2016, nelle Filippine sono state uccise più di 7000 persone. Un bagno di sangue in nome della «guerra ai narcotrafficanti» che autorizza la polizia ad uccidere chiunque si opponga all’arresto. Queste esecuzioni extragiudiziarie sono diventate «una calamità per i diritti umani»: lo ha scritto lo Human Right Watch in un rapporto che fa luce sulle esecuzioni sommarie che stanno gettando il paese, e le comunità povere in particolare, nel terrore. Secondo l’HRW, non solo le forze di polizia si sono rese colpevoli di crimini contro l’umanità uccidendo persone sospette senza un regolare processo, ma avrebbero anche disseminato false prove ai loro danni sulle scene del crimine. Contro questi omicidi diventati ormai “sistematici” l’HRW ha chiesto la fine immediata della campagna antidroga di Duterte e la sospensione degli aiuti internazionali alle Filippine.
Già prima di essere eletto, Duterte aveva promesso di liberare il paese dagli stupefacenti eliminando spacciatori e consumatori. Per il presidente delle Filippine, sacrificare i diritti umani è poca cosa: Duterte li considera un’ossessione occidentale che, se assecondata, impedirebbe di prendere le iniziative necessarie per ripulire il paese. Da sempre Duterte sfida i valori occidentali, sebbene questi siano sanciti all’interno della costituzione filippina. Le sue dichiarazioni esagerate e i suoi toni provocatori stanno ridisegnando il ruolo del paese nella comunità internazionale, allentando gli stretti rapporti con gli Stati Uniti a favore di Cina e Russia. «Se mai dovessi candidarmi alla presidenza, dirò ai filippini di non votarmi, perché scorrerà del sangue», fu la sua dichiarazione in un’intervista tv nell’agosto 2015. La lotta alla droga non è mai stata una priorità prima della sua elezione, nonostante le Filippine rappresentino un mercato estremamente redditizio per i trafficanti di stupefacenti. La carta vincente di Duterte è stata presentare la droga come un problema nazionale in grado di distruggere il paese, a meno di non adottare misure drastiche.
Famoso per i suoi scoppi d’ira e i suoi interventi senza peli sulla lingua, il successo di Duterte deriva anche dal suo sfrenato populismo. E nonostante le uccisioni e lo stato di terrore, la sua popolarità resta altissima, con un consenso pari al 76%. A fare le spese della campagna antidroga di Duterte sono, per sua stessa ammissione, soprattutto i poveri: «I ricchi usano la droga sui jet privati e io non posso permettermi i caccia da combattimento». E in merito alle accuse lanciate dal rapporto HRW, che parla di tragedia per i diritti umani, il presidente filippino ha minimizzato, replicando che «i criminali non hanno umanità, quindi ucciderli non può essere un crimine». Il consigliere legale di Duterte, Salvador Panelo, ha invece definito il rapporto «incredibile» e «pieno di bugie», sostenendo che le famiglie delle vittime intervistate da Human Right Watch avrebbero ignorato le responsabilità giudiziarie dei loro cari e che i delitti sarebbero stati perpetrati da bande di criminali per mettere a tacere potenziali informatori. «Anche se non direttamente coinvolto nelle operazioni di esecuzione – spiega il rapporto – Duterte ha istigato gli atti fuorilegge commessi dalla polizia e incitato i cittadini alla violenza». Ce n’è abbastanza, si conclude, per parlare di crimini contro l’umanità.
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Twitter autore: @JoelleVanDyne_