Le ragioni della guerra in Sud Sudan

Nel 2011, dopo 20 anni di sangue versato per mezzo di una violenta guerra civile, nasce il Sud Sudan. Quello che è attualmente il più giovane stato al mondo è frutto di una secessione “pacifica” dal più noto Sudan. Seguendo una ricostruzione socio-storica piuttosto superficiale e approssimativa, si può dire che mentre nella parte centrale e settentrionale del Sudan è prevalentemente arabo-islamica, la parte sud è confessionalmente riconducibile a un misto di cristianesimo e religioni locali (animiste ndr). Molti tendono spesso a far coincidere l’incipit delle vicissitudini storiche dei paesi sub-sahariani con le colonizzazioni, quando in realtà le frizioni moderne hanno radici molto più profonde, intrecciate sia con fattori endogeni che con fenomeni esterni (prevalentemente interessi economici dei colonizzatori).

guerra in sud Sudan
Lo stato di Unity e il piccolo territorio contesi di Abiey sono i fronti più caldi della guerra in corso.

2 milioni di morti in più di 20 anni di guerra civile cambiano l’esistenza di un popolo, la sua sostanza: non si torna indietro, non si sarà più gli stessi quando ti sei spinto fino al punto di combattere chi fino a pochi anni prima era un tuo vicino, un amico, una persona fidata.

Quando tra il 9 e il 15 luglio del 2011 le popolazioni meridionali del Sudan furono chiamate a esprimersi circa la possibilità di ottenere l’indipendenza dal regime di Khartum (la capitale sudanese ndr), è facile immaginare cosa circolasse per la testa di un popolo straziato dalla guerra. Furono registrate scene di giubilo a Juba: persone danzanti a ritmo di musica locale, strade in festa e molto altro. il referendum ebbe un esito scontato: l’indipendenza ottenne la quasi totalità dei consensi e fu così che il 9 luglio dello stesso anno nacque ufficialmente il Sud Sudan.

guerra in Sud Sudan

Da allora sembra però passata un’epoca: chi infatti aveva pensato di lasciarsi alle spalle tutte le frizioni con il nord, dando così nuova linfa vitale a uno dei territori più poveri al mondo, ha dovuto fare i conti con la storia.

Se infatti prima dell’indipendenza i popoli dell’attuale Sud Sudan erano tutti uniti sotto un’unica egida (la lotta contro il regime di Omar Hassan Al-Bashir, dittatore sudanese sulla cui testa pendono varie accuse da parte della Corte Penale Internazionale per i crimini attribuitegli in Darfour), a seguito di questa gli stessi rimasero come topi che, dopo aver finalmente scacciato il gatto, si ritrovano in una piccola gabbia a dover fare i conti con razioni ristrette di formaggio.

Ammonterebbero a circa 64 le etnie in cui gli 11 milioni di abitanti del Sud Sudan si riconoscono. E come spesso è accaduto nella storia dell’uomo, la diversità diventa un cliente scomodo in periodi di fame e miseria: secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale il Sud Sudan, guidato dal Presidente Salva Kiir, palesava nel 2014 un reddito pro capite annuo di appena 1111 dollari, un’inflazione alle stelle (oltre che in costante crescita) e una povertà diffusa su tutto il territorio. La maggior parte delle persone è occupata in mestieri non retribuiti, prevalentemente in agricoltura di sussistenza e nel febbraio di quest’anno è stato dichiarato lo stato di carestia, seppur limitato soltanto ad alcune regioni del paese. Agenti atmosferici avversi e la distruzione dei campi per mano dei bombardamenti hanno causato quello che è stato definito nel novembre scorso da Ban Ki Moon come «un vero rischio di atrocità di massa».

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Il Presidente del sud Sudan, Salva Kiir, appartiene all’etnia Dinka. Spiccatamente noto tra i leader africani per il suo classico copricapo, egli nel 2013 allontanò deliberatamente il suo vice, Riek Machar. Quest’ultimo si mise a capo dei ribelli, fino a essere “perdonato” dallo stesso Kiir.

E’ in questo contesto che nel dicembre del 2013 Kiir, eletto Presidente tre anni prima dopo un passato vissuto a capo dei ribelli opposti ad Al-Bashir, accusò il suo vice, Riek Machar, di aver ordito un colpo di stato alle sue spalle, facendoo cacciare dal paese: il primo appartiene al gruppo etnico dei Dinka, il più numeroso nel Sudan del sud. Il secondo invece fa parte dei Nuer, secondo per numeri soltanto agli stessi Dinka.

Da qui nacque una nuova guerra civile, intervallata dalla flebile pace dell’agosto 2015 e riesplosa nel luglio 2016, proprio in occasione delle celebrazioni dei primi 5 anni di indipendenza del sud Sudan. I numeri dei danni causati dal conflitto non sono molto precisi, ma si dice che dal 2013 a oggi vi sarebbero stati 300mila morti e circa 2 milioni di sfollati. La gente fugge verso gli stati confinanti (come l’Uganda) o cerca riparo nei campi di accoglienza dell’Onu presenti all’interno dei confini nazionali. Le lotte intestine tra Dinka e Nuer hanno infatti avuto ripercussioni su tutti, anche su quelle etnie non direttamente coinvolte: si riportano addirittura numerosi attacchi effettuati contro gli stessi campi accoglienza allestiti dall’Onu.

guerra in sud Sudan
Rifugiati sud sudanesi presso il campo di Bidi Bidi, uno dei più grandi in Uganda.
Credit to Tiral Skarstein/Norwegian Refugee Council

Si combatte solo per questioni etniche?

Le questioni etniche in Africa non sono uno scherzo: spesso nei paesi africani, come d’altronde anche in sud Sudan, le tensioni tra etnie rimangono sopite per anni, ma è sufficiente puntare il dito contro qualcuno per dare nuovo vigore al focolaio e gettare un paese nel chaos.

Ma è davvero possibile costringere le cause della guerra civile all’interno di un contesto esclusivamente sociale? E’ infatti incredibile constatare l’immobilità sostanziale degli organi internazionali in un paese che a detta di Stephen O’Brien, Sottosegretario Onu per le questioni umanitarie, sarebbe sull’orlo del baratro. Attualmente sono presenti sul territorio sud sudanese 11mila caschi blu, impegnati nella peace-keeping operation delle Nazioni Unite nota come UNMISS: secondo molti osservatori questi non sarebbero abbastanza, ma c’è chi è pronto a giurare che i rifugiati nei campi allestiti dall’ONU stessa debbano la propria vita alla presenza dei soldati di Ban Ki Moon. Altri ancora criticano la passività delle forze Onu quando, nel luglio dello scorso anno, furono trucidate più di 300 persone negli scontri che hanno avuto luogo a Juba.

Molto difficile inquadrare l’effettivo ruolo che le milizie delle UN hanno avuto in questi anni, meglio concentrarsi su un’evidenza: sembra che nessun attore internazionale voglia mettere la parola fine a un conflitto cominciato quasi quattro anni fa. E la causa come spesso accade a queste latitudini è da rintracciarsi nella corsa allo sfruttamento delle risorse.

Le risorse sud sudanesi

il sottosuolo del sud Sudan è ricco di materie prime: oro, rame, zinco, uranio, diamanti, tungsteno e molte altre risorse minerarie (in grandi quantità) si accompagnano alla vera ragione d’interesse che le grandi potenze internazionali riservano al giovane stato centroafricano: l’oro nero.

Il Sudan del sud è strettamente dipendente da questa risorsa, così tanto che la stessa costituirebbe la quasi totalità delle sue esportazioni (95%, dati al 2009) e il 60% del pil. La Cina guarda con interesse a questa risorsa, forte della sua presenza nel paese. Il governo sudanese è il quarto esportatore mondiale di petrolio a beneficio di Pechino.

guerra in sud Sudan
Com’è evidente le più presenti sono la CNPC, la Petrobas (Malasya) e la Totale che detiene la maggioranza delle concessioni del blocco B. Ma l’amicizia nata tra Pechino e Juba non è piaciuta alle potenze occidentali, che mirerebbero a sottrarre a quest’ultima i blocchi 1,2e 4, i più ricchi e contesi dell’area. Inoltre la costruzione di un oleodotto vitale per l’economia del sud Sudan è dovuto in grossa parte all’opera della CNPC, che si è così ingraziata anche Juba.

Si dice che i primi a scoprire questo tesoro (sebbene anche le popolazioni native fossero a conoscenza di pozzi superficiali) furono gli Stati Uniti: la Chevron iniziò le prime esplorazioni negli anni ’80, salvo poi ritrovarsi costretta a rinunciarvi a causa delle aggressioni per mano del Sudan People’s Liberation Army/Movement (SPLA/M), lo stesso gruppo in cui ha miltato a lungo l’attuale Presidente sudanese Kiir. Così, nel ’92, gli americani cedettero le loro concessioni di esplorazione ed estrazione del greggio. E’ piuttosto significativo il dato che ad oggi la gran parte dei pozzi sia in mano alla China National Petroleum Corporation (CNPC). I cinesi si sono aggiudicati queste risorse offrendo in cambio al governo di Karthum infrastrutture (raffinerie, strade e oleodotti) e armamenti, stando almeno a ciò che riportano numerose fonti. E’ intorno al petrolio che montano i conflitti degli anni ’90 ed è proprio sullo sfruttamento di questa risorsa che l’accordo di pace del 2005 tra Sudan settentrionale e meridionale sembra incentrarsi. Nel testo si evincerebbero infatti due condizioni principali:

  • un referendum per la secessione del sud entro il 2011
  • una significativa ripartizione del potere e degli utili petroliferi tra il governo nazionale e l’esecutivo del nascente stato meridionale

Dietro questi accordi, siglati a Nairobi il 9 luglio di 12 anni fa, vi sarebbe secondo molti la mano degli Usa. Questi hanno interessi strategici che corrono dal Mar Rosso fino al Camerun e la secessione del 2011 è stata congeniale alle loro mire imperialistiche: permettere al Sudan di essere un unico stato avrebbe significato dare libero sfogo alla forte presenza cinese in questo stato. Ma dato che, mentre le risorse sono concentrate prevalentemente a sud (nel territorio dell’odierno sud Sudan) e le infrastrutture sono situate a nord (il petrolio raffinato per arrivare sul mercato deve necessariamente passare da Karthum e da Port Sudan) si è preferito operare secondo quel famoso brocardo latino che tanto piace ai protagonisti della politica internazionale odierna: divide et impera. Non è escluso quindi che gli Usa abbiano fomentato la guerriglia contro Al-Bashir (è risaputo ad esempio che i militari del Ciad intervenuti in Darfur proprio contro Al-Bashir abbiano ricevuto armamenti e addestramento dagli Stati Uniti) e che la Cina abbia riempito di armi lo stesso al fine di evitare la secessione.

guerra in sud Sudan
spesso gli aerei incaricati di trasportare gli aiuti umanitari alla popolazione non hanno la possibilità di atterrare a causa delle milizie sparse sul territorio. Sono così costretti a lanciarli dal cielo. Credits to Matt Black/Magnum Photos

Il problema più grande è oggi rappresentato dallo stato di Unity e dallo status di appartenenza di Abyei (una porzione di territorio al confine tra nord e sud). In questi territori si concentrerebbero le più larghe riserve di petrolio ed essendo situati al confine sono l’oggetto principale di contesa tra Juba (capitale del sud Sudan) e Karthum.

L’Onu spinge da anni per l’embargo al commercio di armi in questi territori, ma la proposta di risoluzione presentata presso il Consiglio di Sicurezza il 23 dicembre del 2016 non ha avuto successo. A fronte dei 9 voti necessari per l’approvazione, ve ne sono stati solo 7. Cina, Russia, Giappone tra gli altri, gli stati ad essersi astenuti per evidenti, quanto scellerate, ragioni strategiche.

Uno stato povero come il Sud Sudan, infatti, non è in grado di auto produrre i propri armamenti. Con un prodotto interno lordo pari a 9 miliardi (dati del 2015, il vicino Egitto ne registra ben 330) e l’assenza di industrie e infrastrutture (non riesce neanche a pagare i propri dipendenti statali), ed è costretto a importare le armi dall’estero.

E’ tuttavia molto difficile riuscire a operare una distinzione netta tra le parti in gioco: se consideriamo infatti che uno dei problemi più grandi per i civili presenti in sud Sudan è quello di ritrovarsi di fronte a milizie che, a fronte del migliore offerente, cambiano continuamente fronte, è chiaro come sia ancora più difficile la comprensione del fenomeno per un osservatore esterno. 

La soluzione è però sicuramente una: dire stop alle ingerenze esterne in Sudan, come in molti altri stati africani. Politici corrotti si vendono alle grandi companies, queste sfruttano alecramente le risorse del territorio e la popolazione locale si ritrova con un pugno di mosche in mano, per di più spesso costretta a guerre civili indotte grazie alla mano dell’uomo occidentale (le distinzioni razziali in Congo furono introdotte dai primi missionari, non da un qualsiasi sciamano).

guerra in sud Sudan
Il campo profughi di Malakal, ad oggi ospitante 33000 sud sudanesi, è il quarto campo per grandezza in tutta l’Africa. Le condizioni igienico-sanitarie sono deplorevoli, ma è qui che migliaia di persone in fuga da un’odiosa guerra hanno trovato accoglienza e protezione.
Credit to Kate Holt/Unicef

Limitiamoci quindi a delle considerazioni: giusto non sottovalutare lo scontro politico tra Kiir e il vicepresidente (seppur tutt’ora allontanato da Juba) Machar, ma come si è visto il vero motivo di combattimento sembra nascondersi piuttosto nel sottosuolo. Si potrebbe presumere che una situazione di crisi avvantaggi chi in questo momento ha meno risorse a disposizione (Stati Uniti e Francia) e che questi attori siano addirittura pronti a correre il rischio di un Ruanda bis. A detta di molti infatti il paese rischia di assistere a un genocidio dei Nuer per mano dei Dinka, l’etnia più numerosa in sud Sudan (35,8% degli 11 milioni di abitanti). Dall’altra parte la Cina non sembra essere pronta a mollare, dopo aver visto costretto l’alleato regionale Al-Bashir a cedere terreno nel 2005 con gli accordi kenioti.

Tutti i giochi sono ancora aperti, la corsa a una risorsa che, secondo stime di qualche anno fa, assisterà a una produzione in drastico calo soltanto nel 2035, è in pieno svolgimento. E mentre le grandi potenze giocano a condurre una guerra confusa, cruenta e impossibile da decifrare, la popolazione sudanese muore, come testimoniato dalle immagini in galleria.

 

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