La crisi del lavoro in Giappone, a corto di immigrati e manodopera
Con una percentuale bassissima di immigrati, il Giappone ha raggiunto da tempo l’obiettivo che Trump vorrebbe replicare negli Stati Uniti: limitare al minimo l’ingresso dei clandestini. Il rovescio della medaglia è che il lavoro in Giappone, dove negli ultimi cinque anni il numero di abitanti è calato di un milione di persone, è diventato oggetto di un dibattito sempre più delicato. Le severe leggi sull’immigrazione, unite al calo demografico e alla scarsa propensione dei giapponesi ad accettare i lavori più umili hanno fatto sì che nascesse un “mercato nero del lavoro” avallato dal governo che “importa” manodopera soprattutto da Cambogia, Cina, Vietnam. Nonostante l’età media dei giapponesi aumenti e le nascite diminuiscano, il governo giapponese è restio ad aprire formalmente le sue frontiere ai lavoratori stranieri, pur consapevole dei guai a cui il paese andrà incontro se continuerà a mantenersi così chiuso. Per ovviare al problema, il governo sponsorizza un programma di formazione volto ad attirare manodopera dall’estero. Il piano aggira in un sol colpo la diffidenza verso gli immigrati e risolve in parte la carenza di operai non specializzati, ma in realtà contribuisce soprattutto allo sfruttamento di chi spera di trovare un lavoro in Giappone a condizioni migliori che nel proprio paese d’origine.
Il programma permette a centinaia di migliaia di persone ogni anno di ottenere un visto per svolgere impieghi sottopagati che nessuno degli abitanti locali accetta più: dalla raccolta della frutta al lavoro in fabbrica. Entrando attraverso un piano “di formazione”, gli stranieri – che sono in gran parte cinesi – non vengono considerati lavoratori; di conseguenza, non hanno diritti né tutele. Nessuno, comunque, viene assunto per restare: un visto per lavoratori stranieri dura 3 anni, anche se il governo sta pensando di aumentarlo a 5, estendendo anche le possibilità di impiego alle ditte di pulizie e alle case di riposo. Molti si indebitano per ottenere un permesso, arrivando a pagare fino a 7000 dollari ad agenti specializzati. Il risultato è che, una volta assunti, non possono permettersi di cercare un altro impiego. Ma anche se volessero, il visto in loro possesso non prevede questa possibilità. In tanti accettano lo stesso, dal momento che il salario è più alto di quello che percepirebbero nel proprio paese.
Il programma di Tokyo non rappresenta comunque una risposta sufficiente al problema del lavoro in Giappone, che è soprattutto di ordine culturale. Secondo Hidenori Sakanaka, direttore dell’ufficio regionale dell’immigrazione nella capitale nipponica, nel paese si alternano due dibattiti: da una parte chi sostiene che il Giappone debba ridimensionare le sue pretese, sacrificando la propria crescita per salvaguardare cultura e le tradizioni; dall’altra, chi ritiene che bisogna rispondere all’invecchiamento della popolazione permettendo l’ingresso ai lavoratori stranieri per far sì che il Giappone resti una superpotenza economica. Nonostante le preoccupazioni siano concrete, Tokyo non sembra voler allentare le sue resistenze. A questo scenario, secondo Masao Niwa, avvocato specializzato in lavoro e diritti umani, contribuiscono i mass media e i politici di destra, che propongono una visione allarmante di un Giappone poco sicuro a causa dei crimini commessi dagli stranieri. Dal momento che neanche le prospettive demografiche sono incoraggianti, se nei prossimi anni Tokyo non aprirà le sue frontiere rischierà seriamente di veder ridimensionata la sua produzione e il suo ruolo nel panorama mondiale.
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Twitter autore: @JoelleVanDyne_