Al Maxxi: PLEASE COME BACK. Il mondo come prigione? L’arte riflette sul concetto di libertà
Sembra essere più attuale che mai la mostra inaugurata al MAXXI-Museo delle Arti del XXI secolo, dove 26 artisti internazionali raccontano il carcere come metafora del mondo contemporaneo, non solo nella sua forma fisica di gabbia o cella, ma anche nella dimensione più metaforica e simbolica della privazione della libertà, esercitata attraverso le svariate forme di controllo tipiche della società odierna che, in nome della sicurezza, ci spogliano di ogni spazio intimo e personale. Curato da Hou Hanrou e Luigia Lonardelli, questo ambizioso progetto fruibile fino al prossimo 21 maggio, vuole porsi come il “più politico” mai organizzato dall’istituzione museale, una provocazione, un grido di protesta di artisti che in vario modo hanno reagito alla cultura del controllo e della sorveglianza, non offrendo però risposte al quesito di fondo, bensì considerazioni e forme di resistenza.
PLEASE COME BACK prende il titolo dall’omonima opera del collettivo francese Claire Fontaine, nata da una riflessione degli artisti sulla società come spazio di reclusione e sul modo inquietante in cui ne facciamo consapevolmente parte. L’interrogativo che si cela dietro la nostalgica assenza di qualcuno/qualcosa di cui si desidera il ritorno e a cui il l’opera si riferisce è Che cosa vogliamo torni indietro del paradiso perduto dell’età moderna? e soprattutto Siamo più o meno liberi rispetto al passato? Queste domande sono oggi ancor più urgenti e la risposta non pare essere così scontata laddove anche i concetti stessi di prigione, di muri, di libertà, anche creativa e intellettuale, assumono significati del tutto nuovi. A cominciare dalla hall del museo fino ad arrivare alla Galleria 5 dell’ultimo piano, la mostra si snoda in tre sezioni che si compenetrano l’un l’altra e che si sviluppano attorno all’emblematica simbologia del “muro”. Nella prima sezione Dietro le mura i protagonisti sono gli artisti che hanno fatto l’esperienza diretta della prigione o perché sono stati reclusi o perché ne hanno fatto il soggetto del loro lavoro. In Fuori le mura troviamo invece le opere di quegli artisti che hanno compiuto una riflessione sulle prigioni che non possiamo vedere poiché non delimitate da confini fisici ma che si materializzano attraverso regimi di sorveglianza capaci di trasformare le città contemporanee in vere e proprie prigioni a cielo aperto. Infine nella terza sezione Oltre i muri al centro dell’indagine è il tema della sorveglianza come “pratica organizzativa dominante” a fini di protezione e sicurezza, imperante soprattutto dopo l’11 settembre 2001.
L’intero percorso espositivo, non certo facile e immediato, come in generale non lo è gran parte dei linguaggi artistici contemporanei, è dunque una collettiva forma di denuncia e resistenza, una riflessione sul concetto di progressiva erosione delle libertà individuali nella sua duplice forma di carcere come luogo di reclusione e, in modo più complessivo, sulla prigione sotto forma di controllo e oppressione sociale. Soprattutto dopo la dichiarata “guerra al terrore” l’aumento della sorveglianza e la limitazione della libertà sono state fatte apparire come necessarie al mantenimento dell’ordine sociale e della sicurezza. In altre parole il controllo si estende a tutti i livelli della nostra vita creando di fatto una grande, immensa prigione invisibile, di cui facciamo tutti consapevolmente parte, un luogo costantemente monitorato e mappato, costruito per incasellare vite che si vogliono uniformi per poter gestire al meglio. E quest’esposizione vuole cercare di comprende se, e come, sia possibile recuperare qualcosa di irrimediabilmente perduto, ma vagamente fondamentale, delle nostre umane esistenze.
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