“Giorno della Memoria”, quando ricordare era ancora un tabù
Quando arriva la conoscenza arriva anche la memoria, scrisse l’autore austriaco Gustav Meyrink. Ma cosa succede quando viene presa la decisione di non parlare di alcuni eventi? Disinformazione e rischio di oblio, pericoli temuti all’indomani della Seconda guerra mondiale: dell’ Olocausto non se ne parlò per molti anni e la cognizione della brutalità del nazismo giunse lentamente.
Sul finire degli anni Sessanta qualcosa cambia e in quella particolare atmosfera fatta di rivoluzione a suon di “fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!”, nelle scuole pubbliche si cominciò a parlare dell’Olocausto: era il 1968 e proprio in quegli anni i giovani hanno chiesto ai loro padri che cosa avessero fatto. Prima di allora, in Germania, nazismo e Olocausto erano un vero e proprio divieto sacrale, proprio perché si evitava di discuterne. Infatti, secondo la sociologa israeliana Irit Dekel la prima generazione non ha negato l’orrore dello sterminio degli ebrei, ma lo ha vissuto con una consapevolezza marginale e distaccata, senza un vero riconoscimento delle responsabilità e se “la prima non parlava dello sterminio, che rimaneva quindi un tabù culturale, la seconda concedeva che fosse opera delle istituzioni ma non del popolo tedesco e la terza ammetteva che fosse responsabilità del popolo, ma non di mio padre”. Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Germania si mise in atto un procedimento di denazificazione ossia la Wiedergutmachung tedesca (riparazione): rendendo pubblici i crimini che i tedeschi avevano commesso, gli Alleati obbligarono loro a fare i conti con il passato recente affinché fossero travolti dal sentimento della vergogna. Ma non solo: vennero rimossi monumenti, insegne e statue legate al nazismo; le strade e gli edifici furono rinominati; tutta la propaganda del regime fu eliminata da ogni mezzo di comunicazione. Fu così che, attraverso una implacabile pubblicità finalizzata a punire, il Tribunale Militare Internazionale iniziò a funzionare il 20 novembre 1945: i processi di Norimberga costituiscono un capitolo inedito e senza precedenti nella storia contemporanea. Soltanto ventiquattro nazisti furono condannati per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini contro la pace, mentre dal 1939 al 1945, circa 6 milioni di ebrei furono portati verso la “soluzione finale”. A dir poco 1.100.000 bambini e adolescenti ebrei furono uccisi durante l’Olocausto e fra di loro, c’è chi raccontò attraverso i diari e gli appunti scritti nei campi di sterminio (e accuratamente nascosti) la loro personale esperienza: Anna Frank, Miriam Wattenberg, Dawid Sierakowiak e tanti altri. Fra quelle pagine è espresso tutto il loro dolore, la speranza e lo smarrimento che, sebbene per noi costituiscano una testimonianza importante, per loro rappresentò l’inizio della loro morte e la fine della loro breve esistenza. Osservando gli eventi storici che attraversano il nostro quotidiano, non si può non essere d’accordo con Zygmunt Bauman, quando nel 1989 scrisse che nonostante fosse passato tanto tempo dall’Olocausto e “la generazione che ne ha avuto esperienza diretta è ormai quasi pressoché scomparsa. Ma – e si tratta di uno spaventoso, sinistro ma- le istituzioni, un tempo familiari, che l’Olocausto ha reso di nuovo misteriose, sono ancora parte fondamentale della nostra vita. Esse non sono superate. E dunque non è superata la ‘possibilità’ dell’Olocausto”. Motivo per cui è necessaria la ‘Memoria’, ma non soltanto nella giornata ad essa dedicata. Occorre ricordare perché è un dovere non dimenticare, ogni giorno.
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