Insediamento Trump: arriva l’uomo forte al comando

Alle 12 di venerdì 20 gennaio, secondo l’orario della costa orientale, Donald Trump ha pronunciato il suo giuramento come 45° presidente degli Stati Uniti.

In una Washington particolarmente uggiosa, l’uomo del destino, l’outsider di destra su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo, l’eroe del popolo americano ha detto sì. Sarebbero troppo facili, e forse poco fondati, i parallelismi con la storia italiana che quasi cento anni fa vide insediarsi un altro uomo forte al comando, cui nessuno all’inizio dava credito, e che finì col portare la dittatura nel nostro Paese.

Tuttavia alcuni tratti, drammaticamente coincidono. Figli, entrambi, di un periodo di tensione storica in cui le classi dirigenti (destra-sinistra) tendono a somigliarsi così tanto da essere intercambiabili, di fibrillazione degli strati sociali meno abbienti e di paura (del socialismo allora, delle frange più estremiste e populiste oggi) della middle class che si vede minacciata dal basso e non tutelata dall’alto. Periodi di simili contraddizioni e transizioni sociali in cui la risposta è stata conservatrice, reazionaria in senso Novecentesco: si è scelto – non si è imposto da solo – di imporre l’uomo forte, il demagogo che spara a zero sul passato ceto dirigente salvo poi incamerarne i più oscuri burattinai nella sua macchina di governo.

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Come altri in passato, nel suo discorso di insediamento Trump ha esaltato l’eccezionalità dell’evento e la sua radicale diversità rispetto al passato: critico rispetto a una alternanza che ogni quattro anni ripropone in sostanza la stessa minestra, questa volta – ha detto – le cose sono cambiate, non ha vinto l’uomo dell’establishment ma l’uomo del popolo, e quindi con lui ha vinto il popolo. Il potere non passa da un partito a un altro, ha dichiarato, ma da una casta viene restituito direttamente nelle mani del popolo.1

Che non sia vero poco importa, ora come allora, purché l’ardito obiettivo sia un rinnovamento, un’America nuova fatta da un Americano Nuovo: AutarchicoComprate americano, assumete americano è lo slogan con cui verrà ricordato di discorso di insediamento di Trump, che rivela analogie strategiche rispetto a una politica di chiusura e di conservazione. L’isolazionismo di Donald Trump, che passa anche attraverso il ridimensionamento dell’ISIS, ha carattere universale: è cioè al tempo stesso politico (specie in politica estera laddove si dichiara disposto a interloquire con tutti ma previa ammissione della priorità dell’interesse americano), economico (favorire il mercato interno e rendere più difficile l’assunzione di lavoratori non americani) e sociale.

Forte di un retorica “nuova” ma che in realtà è molto molto vecchia, il discorso Trump si propone come un nuovo orizzonte narrativo, un ordine nuovo da costruire, ma soprattutto da raccontare a chi ha bisogno di sentirsi dire certe cose per accordare la propria fiducia al deus ex machina delle angosce contemporanee che altri non è che l’ennesimo condottiero e padre della patria dall’armatura brillante e dal petto villoso.

Trump non ha rinnovato niente ma ha attinto a piene mani dal passato, riproponendolo in una salsa moderna.È  anzi la risposta ultramoderna alla deriva della postmodernità. Per fortuna non è la sola risposta possibile, ma oggi è quella vincente.

 

@aurelio_lentini

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NOTE:

  1. La cerimonia di oggi ha un significato speciale perché non stiamo solo trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra o da un partito a un altro, ma stiamo ridando il potere da Washington a voi, il popolo. — Today’s ceremony, however, has a very special meaning because today we are not merely transferring power from one administration to another or from one party to another, but we are transferring power from Washington, D.C., and giving it back to you, the people.