Un mese di Renzi: fare, far parlare o fare niente?
“Cambiare verso”: è passato poco più di un mese da quel fatidico freddo 8 dicembre che ha consegnato a furor di popolo la difficoltosa carica di Segretario del Partito Democratico a Matteo Renzi.
Nel mezzo, un anno solare è cambiato e con qualche fetta di pandoro in più sullo stomaco si potrebbero già tirare – alcune – prime somme sul (secondo?) lavoro del Sindaco di Firenze.
Tanto per cominciare, bisogna partire da un semplice concetto di base: Renzi è stato sì eletto con una maggioranza schiacciante (67%), ma né all’interno della maggioranza di Governo né di quella parlamentare può esprimere una soglia di preferenze maggioritaria all’interno di un partito che più “correntizzato” di così, si muore.
«Questa non è la fine della sinistra, è la fine di un gruppo dirigente della sinistra»: a risentire l’eco di quelle parole, forse, si sarà un po’ toccato Pier Luigi Bersani, da poco ricoverato per un’emorragia cerebrale; eppure, fu il vero e proprio punto di partenza del primo discorso del nuovo Segretario del più grande partito di centro-sinistra italiano. Da lì a poco, sarebbero partite le sfide, le promesse, le proposte.
Se c’è un assioma che ha segnato sin dal principio il lavoro di Renzi, tra crisi che incombe e conflitti interni al Governo Letta, quello è il “fare in fretta”: si tratta di un mantra, un evergreen ripetuto costantemente e in maniera spesso sprezzante nei confronti dei “piani alti” del Paese. In parte, la parola data è stata mantenuta; la Segreteria ha avuto giusto il tempo d’assistere a un’alba per vedere poi immediato il cambio dei propri occupanti. Dunque, subito sedute e incontri record: alle 7 del mattino, un’accelerata su cui i giornali italiani hanno posto un forte accento rilevando un’evidente (ne siamo sicuri?) controtendenza nei confronti delle passate gestioni. Poi, le tante proposte sul piatto, condite per gli elettori che poco seguito sono però riuscite a riscuotere nelle istituzioni: nonostante la voglia di partire in quarta il motore sembra ancora fisso in folle.
Cancellazione della Bossi-Fini, della Fini-Giovanardi, matrimoni civili sul modello tedesco e nuova legge elettorale sono offerte che potrebbero “europeizzare” l’Italia ma che difficilmente troveranno un ampio consenso in Parlamento; tra chi vuole andare al voto subito, chi è ideologicamente (o a priori, o ambedue) contro, chi minaccia di far precipitare tutto e chi preferisce restare ammollo ancora un po’, sembra difficile trovare un’intesa già per una delle idee renziane, figuriamoci per il blocco intero.
E così, per il momento, l’attività di Renzi è sembrata non molto dissimile da quella di un Beppe Grillo qualsiasi che, da fuori al Parlamento, non ha i numeri «per fare» ma ha quelli per «far parlare». Quindi, giù di cane da guardia quando si è trattato di accusare le “marchette” nella norma pro-slot del salva-Roma, bis nel recente caso dei 150 euro richiesti da Saccomanni alla scuola e quindi un forte daje addosso alla Cancellieri (per una sfiducia che poi non s’è avuta, perché?) e la recente richiesta di chiarimenti in Parlamento (per voce dei “renziani”) alla Ministro De Girolamo. Poi? Poco, forse niente, se escludiamo le dimissioni del vice-ministro dell’economia (peraltro del Pd, mica di Forza Nuova).
Certo, qualcosa vorrà pur significare il silenzio di Napolitano e qualcosa valgono i recenti malumori di Enrico Letta, forse convinto a quel rimpasto che, nelle parole e nei fatti, fa tanto democristiano. Eppure, il vero “shock” che molti aspettavano forse ancora non c’è stato. Nonostante i propositi che paiono positivi. Anzi, propositi che paiono esserci, costituendo già un vantaggio rispetto a una classe politica – quella nostrana – da troppo tempo ormai appollaiata e dormiente sulle medesime, vetuste posizioni. E così, se va comunque registrato con stupore il mancato rigetto del Job Acts da parte di anime storiche della sinistra che anzi ne hanno plaudito il fare propositivo (Rodotà), resta purtroppo, nel merito, insoluto il quesito di Maurizio Landini, un altro di quelli che, con Renzi, non è mai stato particolarmente morbido: «siamo sicuri che questo Governo potrà fare le riforme?»
di Mauro Agatone