4 errori di Obama da non dimenticare
Il 20 gennaio l’ormai ex-Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama lascerà la Casa Bianca dopo otto lunghi anni, sgombrando così il campo in favore del suo ormai noto successore, Donald Trump. Da un anno a questa parte gran parte della stampa italiana si è preoccupata di glorificare il presidente uscente e la propria consorte, Michelle, non curandosi (spesso) del merito e badando solo a rispettare una tradizione tesa alla spudorata protezione del politically correct e a una vuota difesa di un occidente sempre più povero di valori.
Eppure la politica estera di Obama in questi anni non è stata lungimirante, tutt’altro. Il materiale su cui discutere è molto vasto, limitiamoci a richiamare quelli che a nostro avviso sono i principali fallimenti e le principali colpe del Presidente uscente.
Afghanistan
Nel 2008 Obama promise a tutto il mondo che alla fine del suo mandato la guerra in Afghanistan sarebbe terminata. Dopo due mandati ciò non è avvenuto e nel paese centro-asiatico sono presenti tuttora 8400 militari statunitensi. Nel giugno del 2016 il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha autorizzato i propri uomini (truppe di terra e aviazione) a sferrare attacchi contro i talebani, estendendo così le loro competenze fino a poco prima limitate a una funzione di addestramento delle truppe locali. La guerra in Afghanistan silenziosamente continua, probabilmente indirizzata verso un periodo di forti escalation militari.
Libia
Qui arriviamo al paradosso: capita ogni tanto di fermarsi ad ascoltare le edizioni serali dei telegiornali e la loro litania circa il dramma immigrazione. Non indignatevi per il termine, in quanto di questo si tratta. L’attacco sferrato nel 2011 alla Libia dalla NATO è stato riconosciuto come un errore dallo stesso Obama. Egli non fu il primo sponsor dell’attacco di quel marzo 2011 contro Gheddafi (al contrario della sconfitta Hillary) ma ha comunque pesanti responsabilità per quanto riguarda quell’evento. Il risultato è una Libia senza controllo in cui si fronteggiano più fazioni, lasciando così campo a nuove attività dello Stato Islamico. Gli sbarchi sono incontrollati e a oggi non c’è una forza politica credibile con cui confrontarsi per dare una risposta concreta al problema.
Ogni volta che si parla di emergenza immigrazione chiedetevi quali siano le fonti del problema, da cosa fuggano quelle persone. Di certo l’intervento in Libia avallato dall’amministrazione Obama è parte del puzzle.
Siria
Essendo l’unico paese medio orientale in cui le primavere arabe non hanno dato i propri “frutti” come qualcuno sperava, la Siria sembra essere per molti aspetti la più grande sconfitta dell’amministrazione Obama. Dopo aver minacciato nel 2012 un intervento armato in caso di utilizzo di armi chimiche, il Presidente Obama, a fronte del presunto uso di gas sarin da parte del regime di Bashar al Assad, ha esitato decidendo così di non invadere Damasco con le proprie truppe. Prove certe della responsabilità del governo Siriano negli attacchi dell’agosto 2013 non ci sono e il mancato intervento è sicuramente un punto a favore di Obama, visto anche il recente mea culpa di Blair riguardo l’Iraq. Non va però dimenticato che l’America ha armato i ribelli siriani e sostenuto a lungo formazioni terroristiche come Al Nusra, trasformando così quello che inizialmente doveva essere uno sfogo pacifico e civile contro il regime di Assad in una vera e propria guerra, che dal 2011 ha fatto circa 400000 vittime.
Yemen
Menzione particolare merita l’esecuzione di Anwar al Awlaki: la storia di questo cittadino americano, ma originario dello Yemen, è ben descritta nel documentario di Jeremy Scahill e Rick Rowley, candidato all’oscar nel 2014. Al Awlaki, imam cresciuto negli Stati Uniti, se originariamente si attestava su posizioni moderate tese a un incontro tra la società civile statunitense e quella musulmana (celebri i suoi discorsi in seguito all’11 settembre) fu poi portato dalle politiche di Bush a demonizzare gli Usa e a invocare la Jihad, la guerra santa contro l’occidente. Parole le sue, sermoni che seppur duri sono stati sufficienti a commissionare il suo omicidio per “mano” di un drone, mentre si nascondeva nelle montagne dello Yemen, dato che poco tempo prima aveva scoperto di essere ricercato dall’intelligence americana. Nessun processo, nessuna indagine, soltanto morte per un cittadino americano. Inserito nell’elenco delle persone che la CIA era autorizzata a uccidere proprio dal Presidente Obama, premio nobel per la pace, ma sulla fiducia. Stessa fine del padre ha fatto il figlio di al Awlaki, Abdulrahman, che neanche maggiorenne si era messo sulle tracce del padre, nella paura di perderlo e non vederlo mai più. E’ stato riconosciuto soltanto “grazie” ai capelli, tutto il resto non esisteva più.
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