Medicina solidale, la sfida di Tor Bella Monaca
Prima di diventare carne da campagna elettorale – in un quartiere come Tor Bella Monaca, dove il disagio sociale non ha certo bisogno di velati incoraggiamenti al razzismo, ma di politiche di integrazione ed educazione – l’Istituto di Medicina Solidale e delle Migrazioni era ospitato nei locali al piano terra della chiesa di Santa Maria Madre del Redentore.
Un progetto profondamente radicato sul territorio, che si era concretizzato nel 2004 con un’ intesa fra Policlinico di Tor Vergata, Istituto di Medicina solidale – ONLUS di medici universitari dal credo politico e religioso eterogeneo – e Diocesi di Roma.
Poi, nel 2009, il sindaco Alemanno assegnò all’ambulatorio i locali comunali dell’ex Centro anziani in via Aspertini. Da quel momento la questione sulla sopravvivenza del centro è divenuta teatro di scontro per accaparrarsi i voti in municipio: se Forza Nuova aveva da sempre manifestato il proprio dissenso, a quel punto addirittura il Pd invocava in un manifesto la chiusura del “centro dei clandestini”. Qualcun’altro denunciava l’inadeguatezza della struttura: invece di contare i bei traguardi di accoglienza raggiunti, mirava a raggiungere i propri. Elettorali.
Complici queste polemiche sull’inadeguatezza della nuova struttura, e forse i tagli alla Sanità, nel gennaio 2012 il Policlinico di Tor Vergata ha deciso la sospensione delle attività istituzionali e della sospensione del personale. Il servizio procede da allora attraverso partecipazione volontaria, con tutte le difficoltà del caso dovute a ricerca di fondi, mancata attenzione da parte delle istituzioni, necessità di ristrutturare ed ampliare i locali e i servizi, come il centro prelievi che è venuto a mancare. Come afferma la dott.ssa Lucia Ercoli, ricercatrice universitaria e responsabile della struttura, <<i volontari non sono solo professionisti specializzati in diversi settori disciplinari, ma persone che hanno fatto una scelta dettata da una forte motivazione interiore: riscoprire la gratuità come perfezione di ogni intervento di cura, come premessa irrinunciabile di ogni autentico incontro con l’altro>>.
Costante, soprattutto negli ultimi mesi, è la ricerca di <<personale qualificato non solo tra i medici e gli infermieri, ma anche tra epidemiologi, antropologi, psicoterapeuti, nutrizionisti, mediatori culturali, educatori, assistenti sociali>>. Possono aderire anche studenti, specializzandi, professionisti in pensione. <<Per i nostri progetti attualmente abbiamo bisogno di 2 pediatri, 1 chirurgo, 1 neuropsichiatra infantile, 2 assistenti sociali, 2 mediatori culturali di lingua cinese>>, è l’appello rivolto ai volontari che fossero interessati a collaborare.
La maggior parte dei pazienti che si rivolgono a questa struttura sono donne e bambini, immigrati, indigenti, prostitute. Ecco cosa significa lavorare nella Medicina Solidale: offrire percorsi assistenziali capaci di rimuovere gli ostacoli burocratici, emotivi ed economici che molte volte impediscono alle persone di accedere al Servizio Sanitario Nazionale. Il servizio, che rappresenta ormai un punto di riferimento per un quartiere così particolare, non è destinato solo agli stranieri: sono sempre più gli italiani che ne usufruiscono, appartenenti soprattutto a categorie svantaggiate come disabili, anziani, monoreddito, disoccupati.
In Italia la sanità è pubblica. Eppure tante sacche della popolazione rischiano di restare escluse da un trattamento sanitario adeguato. Spesso è semplicemente una questione di educazione, consapevolezza, istruzione. Consultare il vocabolario alla voce “Pregiudizio”. Al contrario, è necessario comprendere che l’attività offerta da questo tipo di medicina, permette proprio di avvicinare gli utenti all’offerta assistenziale, favorendo la promozione dell’educazione alla salute e alla prevenzione; di informare gli assistiti sulle regole e i percorsi istituzionali da seguire per l’accesso alle cure, per la contribuzione alle spese sanitarie, per la richiesta di documenti e servizi di assistenza. D’altra parte si tratta di un fantastico esempio di integrazione e sussidiarietà, contro la paura, l’ignoranza e la conseguente diffusione di malattie “di ritorno”. Questi ambulatori non devono essere visti come un’alternativa al SSN, bensì come una risorsa per lo stesso, un’integrazione. Grazie alla professionalità di chi li tiene in vita, potrebbero giungere contributi innovativi e poco costosi alla Ricerca, nonché si potrebbero ottenere dati epidemiologici utili per la cooperazione, e l’arricchimento della banca dati dell’ Istituto Superiore di Sanità.
Il sogno parte da un’unica certezza “Non è sempre possibile guarire ma è sempre possibile curare”.