Referendum: la finanza si schiera con il sì
La finanza si schiera con il sì. Sembra essere questo il dato inconfutabile che giornali, web e televisione ci stanno trasmettendo a spron battuto da quando il dibattito in tema referendario si è fatto più caldo. Affermate il contrario? Elenchiamo i principali endorsement delle ultime settimane:
Financial times
Ultima, in ordine cronologico, è la riflessione messa nero su bianco dal giornalista Wolfgang Münchau, condirettore dell’anglosassone Financial Times, secondo il quale un eventuale esito negativo sul quesito referendario italiano porterebbe a far svegliare l’Europa il 5 dicembre: «con l’immediata minaccia della disintegrazione (dell’integrazione europea ndr)». In realtà il giornalista tedesco focalizza la matrice di questi scenari non tanto sull’esito del referendum, il quale “potrebbe accelerare l’iter di uscita dall’Europa per l’Italia“, quanto piuttosto sulle politiche economiche europee degli ultimi anni. Questo per sottolineare la “deviata spinta mediatica” che le idee di Münchau hanno ricevuto dai mezzi stampa del bel paese. Tuttavia il Financial Times una cosa l’ha scritta: la vittoria del no sarebbe un evento rilevante, quasi quanto la vittoria della Le Pen in Francia, per innescare il processo di uscita dall’Unione Europea dell’Italia. Da lì alla bancarotta dei più importanti istituti bancari dello stivale il passo, secondo lo stesso FT, sarebbe breve.
Wall street journal
Non si risparmia neanche il Wall street journal che, nello stesso giorno dell’editoriale di Münchau, puntualizza: «Se respinto, il referendum avrà il potere di far tremare i titoli bancari, spingere gli spread ed indebolire ulteriormente l’euro». Non risparmiandosi poi una funesta lettura del futuro italiano in caso di un governo a cinque stelle, definito come un: «partito antiestablishment che punta a rinegoziare il debito italiano e a indire un referendum sull’euro, destabilizzando tutto il sud Europa», capace di «far crollare del 20% i principali indici europei». Le tanto paventate cavallette, per capirci.
Deutsche bank
Alla stesura delle piaghe bibliche in caso di vittoria del no si unisce anche il principale istituto bancario tedesco, la Deutsche bank. Nonostante il momento di navigazione a vista in acque piuttosto agitate (il riferimento non è casuale), l’istituto finanziario, attraverso il suo capo economista David Folkerts-Landau, ha dichiarato a Bloomberg che: «più ci si avvicina alla data del referendum, e più l’effetto dell’elezione di Trump si fa sentire, più gli investitori esteri usciranno dall’Italia sino a far esplodere lo spread». Spread scomparso dai radar dell’informazione dal lontano 2011, quando arrivò a palazzo Chigi Mario monti e che ora torna ad affacciarsi minaccioso (vedi anche le parole di Giorgio Napolitano a Porta a Porta) sulla scena politica italiana.
La conclusione cui giunge Folkerts-Landau è che, senza riforme, l’Italia si ritroverebbe in un permanente stato di crisi e che per questo motivo sarebbe una scelta saggia uscire dall’euro.
Alla fila si aggiungono, tra gli altri, l’ambasciatore Usa in Italia John Philips e l’agenzia di rating Fitch. Ma perchè il referendum genera tutto questo interesse nello scenario finanziario internazionale? Per capirlo occorre leggere tra le righe della riforma.
La riforma dei desideri
In un documento di relazione sulla riforma costituzionale, presentato dall’esecutivo al parlamento nell’aprile del 2014, si legge che: «Negli ultimi anni il sistema istituzionale si è dovuto confrontare con potenti e repentine trasformazioni, che hanno prodotto rilevanti effetti sui rapporti tra Governo, Parlamento e Autonomie territoriali – incidendo indirettamente sulla stessa forma di Stato e di Governo – senza tuttavia che siano stati adottati interventi diretti a ricondurre in modo organico tali trasformazioni entro un rinnovato assetto costituzionale.»
A quali potenti e repentine trasformazioni fa riferimento questo documento? Anzitutto all’evoluzione del processo d’integrazione europea, culminato con il trattato di Lisbona nel 2009. Non è un caso che il nostro testo costituzionale faccia ancora riferimento, all’art. 55, ad una Comunità Europea e non all’istituzione “Unione Europea” che tutti oggi conosciamo, una vera e propria organizzazione politica ed economica di carattere sovranazionale (acquisisce sovranità laddove gli Stati nazionali cedono porzioni della propria ndr), concetto ben differente dalla vecchia Comunità Europea.
Partiamo proprio da qui: molti hanno ritenuto che l’inserimento del termine “Unione Europea” all’interno del nostro testo costituzionale sia un soltanto un doveroso aggiornamento lessicale. Guardando però all’art. 50 del TUE qualche dubbio sorge: questo articolo del Trattato sull’Unione Europea contiene le disposizioni inerenti il procedimento di uscita dalla stessa e in particolare ci dice che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione.” Con la Costituzione attualmente in vigore, per lo Stato italiano sarebbe sufficiente denunciare i trattati istitutivi dell’UE essendo legata a questa soltanto dal principio di diritto internazionale pacta sunt servanda (art.10 della nostra carta). Qualora l’istituzione Unione Europea entri a pieno regime nella nostra costituzione, chi ci assicura che in futuro non vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale in caso di uscita dall’UE? E’ possibile che inserendo nella nostra carta costituzionale il termine Unione Europea sia necessaria un atto di revisione costituzionale per uscire dalla stessa?
Il documento punta poi il dito sull’«esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea». Questa revisione costituzionale non è soltanto, come i dibattiti più frequenti sono soliti ricordarci, quella dell’abolizione costituzionale delle province, del CNEL e dei tagli dei costi alla poltica: votando sì il 4 dicembre si darà un fortissimo ed ulteriore impulso al processo d’integrazione europea, in particolare nei seguenti articoli riformati:
- all’art. 55 viene stabilito che il cosiddetto “senato delle autonomie” partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea.
- all’art. 117 il termine “ordinamento comunitario” viene sostituito da “dell’Unione Europea“
- all’art. 70 viene previsto l’esercizio della funzione legislativa sia da parte della Camera dei deputati che del Senato delle autonomie per le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.
Dov’è quindi il problema? Negli ultimi anni l’Unione Europea si è mossa su binari socio-economici ben distanti da quell’idea di inclusione sociale e tutela per i deboli che il nostro testo costituzionale prevede: Fiscal compact, vincolo di bilancio, Mes, Bail-in e molti altri provvedimenti rispondono a quello spirito neo-liberista insito nel TUE e nel TFUE (rispettivamente trattato sull’Unione Europea e trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, modificati dal trattato di Lisbona) piuttosto che alla concezione di un diritto al lavoro e a una retribuzione dignitosa come base necessaria per la partecipazione alla vita politica e sociale del cittadino, ovvero lo spirito primo della costituzione più bella del mondo. La nostra Carta si occupa di rimuovere gli ostacoli economici che si frappongono a questo obiettivo, ma allo stesso tempo ne introduce alcuni di derivazione europea (vedi il pareggio di bilancio). Approvare la riforma costituzionale Renzi-Boschi significherebbe sugellare questo disegno partito già da lontano e vorrebbe dire rafforzare la legittimità costituzionale di istituti come lo stesso pareggio di bilancio (il quale, repetita iuvant, è già presente nella nostra Carta dal 2012 all’art. 81).
Se a questo aggiungiamo l’accentramento del potere nelle mani del governo (voto a data certa e combinato disposto italicum-riforma costituzionale) e l’istituzione di un nuovo senato non elettivo che parteciperà direttamente alle politiche europee è ben chiaro il motivo dell’endorsement di quella finanza e di quel nuovo sistema capitalista impegnato a sottrarre diritti (Loi du travaile in Francia e battaglia contro l’austerity in Grecia) per distribuire stabilità dei prezzi e competitività economica.
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