I migranti rubano il lavoro agli europei?
I migranti rubano il lavoro. Una delle questioni più delicate e spinose dell’ultimo decennio, tanto da far suonare queste parole come una noiosa ripetizione ascoltata più e più volte. Proprio per chiarirvi fin da subito che questa non intende essere la solita analisi fondata sull’accorato sentimento pro-rifugiato o sull’odio anti-radical chic, partiamo da qualche dato e da un grande punto interrogativo: nel solo 2015 sono sbarcati in Europa circa 1 milione di migranti. Come tutti sappiamo, all’interno di questa grande massa di persone ritroviamo i migranti economici, richiedenti asilo, rifugiati, migranti irregolari ed altre categorie facilmente individuabili in altri sedi. Di quel milione, 856000 persone finiscono in Grecia, anche se la maggior parte per via transitoria (prima del famoso accordo con la Turchia ndr) e solo 153000 in Italia. La redistribuzione in altri paesi europei? Effimera: nell’ultimo anno, dei 160000 rifugiati che dovevano essere redistribuiti nei vari stati comunitari, l’Europa ha ottenuto il risultato di un misero 3% di questa cifra. Si scrive cinquemila rilocazioni, si legge fallimento delle politiche europee.
Nel frattempo, come su riportato, la via dei Balcani è bloccata dallo scorso marzo e da allora la gran parte dell’immigrazione europea ha trovato libero sfogo in Italia. Tolto il 2015, anche il 2016 può essere considerato un anno record in confronto ai precedenti: gli ultimi dati Unchr ci dicono che dal 1 gennaio al 31 ottobre 2016 sono sbarcate in Europa 331016 persone, di cui 169mila in Grecia e circa 158947 in Italia. Numeri nettamente superiori al trend del 2012(22000), 2013(60000) e 2014 (216000). E ancora, per comprendere la portata dell’accordo con la Turchia c’è da dire che, a fronte dei 30000 arrivi registrati a ottobre in Europa, solo 2800 unità sono sbarcate in Grecia. Il risultato? Se gli immigrati giunti sulle coste italiane nel 2015 furono 140987, il dato di ottobre 2016, come su riportato, supera non solo gli sbarchi registrati fino all’ottobre dell’anno precedente, ma addirittura quelli di tutto il 2015.
5 milioni circa di stranieri nel nostro paese (cui si aggiungono le recenti ondate di migranti), sette milioni e mezzo in Germania, quattro e mezzo in Spagna e cinque e mezzo in Inghilterra: queste persone sono oggi una realtà dei nostri prodotti interni lordi e del nostro comparto economico. Ma gli ultimi arrivi sono una minaccia per il lavoratore medio europeo? O piuttosto la minaccia è colui che cova questa paura, figlio del sentimento xenofobo che sta inghiottendo, a detta di molti, il cuore dell’Europa? Proviamo a fornire alcune risposte attraverso i dati.
Secondo l’ultimo rapporto eurostat sull’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro europeo, il nostro continente, in base a diversi indicatori economici, sarebbe spaccato a metà tra paesi del nord e stati mediterranei. Osservando il rapporto tra nativi (d’ora in poi chiameremo così uomini e donne aventi nazionalità del paese di riferimento) e stranieri in merito al “tasso di attività” di questi (la nostra forza lavoro per intenderci, comprendente sia occupati che disoccupati), si nota che mentre in molti paesi del nord-Europa, come Germania, Danimarca e Svezia, la percentuale è più elevata per i nativi piuttosto che per i cittadini stranieri, in paesi come Italia e Grecia il dato è in netta controtendenza. Qualcuno, come ad esempio il primatonazionale.it ha letto in questo un chiaro segnale del fatto che nei paesi mediterranei gli stranieri stiano rubando il lavoro ai nativi: sarebbe bastata però un’osservazione più attenta al parametro preso a riferimento, dato che si sta parlando di forza lavoro e non di occupati effettivi. Una lettura di questo primo dato può essere data alla luce dei maggiori sbarchi sulle coste greche e italiane di persone in età lavorativa e dall’invecchiamento della popolazione nativa: tenendo a mente che però la percentuale generale di stranieri in età lavorativa (67,9%) in Italia nel 2015, comprende anche moltissimi cittadini europei. Ricapitolando: dei circa 4 milioni di cittadini extracomunitari presenti sul nostro territorio, il 72,6% di questi è in età lavorativa.
Un dato impressionante se consideriamo la velocità (anche se è da registrare un rallentamento del fenomeno) con cui sta invecchiando la popolazione nativa italiana (67,9% di forza lavoro) e quella di molti altri paesi europei. Una società che non fa più figli e che rimanda sempre più in là nel tempo l’età pensionabile. Ma che tipo di impiego andrà a ricoprire quella forza lavoro percentualmente superiore rispetto ai nativi?
Prima di dare risposta a questo quesito, forniamo un ulteriore dato: secondo il quinto rapporto annuale migranti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Italia, tra le 6 nazioni più importanti d’Europa, è l’unica in cui il tasso di occupati percentuale tra gli stranieri è più elevato di quello dei nativi. Entrambi hanno registrato nel 2014 un aumento percentuale. Differente la situazione in Francia dove il tasso occupazionale degli stranieri è in contrazione (in linea con delle politiche che ben si discostano da integrazione e multiculturalismo) mentre secondo quanto si evince dai dati del ministero del lavoro sta crescendo l’occupazione straniera in Germania, Italia appunto e Regno Unito.
Constatato tutto ciò occorre però chiederci se davvero i migranti siano in competizione con i nativi europei sul mercato del lavoro. Stavolta partiamo da un articolo dello scorso luglio pubblicato su “La Stampa”, in particolare da uno stralcio nettamente pro-immigrazione: «Altri dati di fonte Istat smentiscono un altro stereotipo. Non è vero che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Laddove calano gli occupati italiani non aumentano i lavoratori stranieri. Per esempio, gli occupati italiani nel corso della crisi sono diminuiti nell’industria, commercio, pubblica amministrazione, istruzione e sanità (modifiche carattere aggiunte dall’autore ndr). Gli occupati stranieri sono aumentati nei servizi alle famiglie e negli alberghi e ristorazione, cioè in settori totalmente diversi. In agricoltura calano gli italiani e aumentano gli stranieri, ma i primi calano tra i lavoratori autonomi e i secondi crescono tra i braccianti. Il che significa che il nostro mercato del lavoro continua a mantenere un carattere duale, con una forte e netta separazione tra professioni italiane e straniere».
Basta scorgere i dati per accorgersi che ciò che la Stampa scrive non è esatto. Se infatti nelle costruzioni il numero degli occupati scende cala vistosamente sia tra i nativi che tra gli extra-comunitari, nel settore del commercio, in quello dell’industria in senso stretto e soprattutto in quello agricolo la svista è notevole. Si tratta di un dato preoccupante?
Secondo un recente studio realizzato dal Cer (Centro Europa Ricerche), mentre in paesi con una bassa presenza di low skill workers (lavoratori con scarsa qualifica) il fenomeno migratorio può essere un utile strumento onde andare a coprire questa carenza con lavoratori di bassa qualifica e a costi inferiori, è nei Paesi (secondo il rapporto, come Malta, Italia e Portogallo) dove un’alta domanda lavorativa nei settori più bassi del mercato è già presente nei nativi, che un fenomeno migratorio ingente rischia di far danni su salari e disoccupazione per questi ultimi. Lo studio del Cer delinea quindi, ancora una volta, una duplice situazione in Europa: paesi settentrionali, come la solita Germania, dove non essendo i nativi in competizione negli stessi settori degli extracomunitari, temono soltanto un peso eccessivo sul proprio grado di welfare, un sistema di aiuti e di sussidi molto più elaborato di quello presente nei paesi del sud-Europa, dove al contrario i lavoratori hanno paura di perdere il posto di lavoro. In italia come in altri paesi meridionali infatti vi sarebbe molta più concorrenza in manodopera e altri mestieri del settore primario e secondario: per questo aleggerebbe il timore di un abbassamento dei salari e di un aumento della disoccupazione tra i lavoratori.
Un altro studio, stavolta condotto dal Professor Klaus F. Zimmermann per l’università di Princeton, se inizialmente non lascia spazio alle incertezze affermando, riferendosi alla conflittualità migranti-nativi sul mercato del lavoro europeo, che: «una prova scientifica evidenzia che la maggior parte delle preoccupazioni sono infondate. Per esempio, molti studi empirici di recente fattura puntano sulle opportunità economiche derivanti dall’immigrazione e sulla base di ciò muovono idee di un’Europa capace di raggiungere un giusto ed effettivo collocamento dei migranti sul mercato del lavoro nel rispetto dei principi e dell’unità europea», nella conclusione arriva ad affermare che il rischio di un conflitto nativi-migranti in materia di occupazione, aumenta laddove il mercato del lavoro sia per larga parte in nero, rimarcando così la necessità di un processo di regolare integrazione dei migranti nel mercato del lavoro europeo.
Questa ricerca non intende certo aizzare le folle contro gli esseri umani in arrivo nei nostri confini. Essere profughi in fuga da guerre non è uno scherzo. Piuttosto intende aprire gli occhi e suscitare domande davanti ad alcuni dati incontrovertibili: da decenni le organizzazioni internazionali e i paesi occidentali sono solite muoversi con politiche interventiste in vari paesi del medio-oriente e dell’Eurasia, provocando guerre e morte. A fronte di una popolazione europea sempre più vecchia e allo stesso tempo incapace di mantenere gli standard di vita cui si è abituata dagli anni post-conflitto mondiale a oggi, questi migranti abbasseranno il livello medio di benessere o no? Come si integreranno con la popolazione nativa? Non molto tempo fa dalle istituzioni tedesche sono rimbalzate voci circa la necessità di 250 milioni di migranti sul territorio europeo per mantenere alto il grado di welfare. Questa frase corrisponde a verità?
I dati parlano per il presente, e dire che spesso lo fanno in negativo non basta per essere tacciati di razzismo.
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