Hedda Gabler con Manuela Mandracchia al Quirino
Polvere. È questa la prima cosa che viene in mente se si pensa allo spettacolo Hedda Gabler, da Henrik Ibsen, in scena al Teatro Quirino di Roma. Un’atmosfera di un blu denso, divani coperti con tessuti dello stesso colore, spesse tende ancora più scure che non lasciano trapelare la luce, vestiti dalle tonalità grigie, unica eccezione la protagonista che prima indossa un abito bianco e grigio e poi bordeaux.
Mobili antichi e austeri, un vecchio pianoforte e, come a vegliare austero su tutto, il dipinto in bianco e nero del vecchio generale Gabler. Un mondo immobile e polveroso dove la bella e fredda Hedda non sa trovare posto, proprio come i tanti fiori che riceve in dono ma che in questo ambiente sembrano essere solo un triste presagio di morte. La regia dello spettacolo è di Antonio Calenda che per interpretare la cinica e tormentata Hedda ha scelto Manuela Mandracchia, una delle attrici più affermate e capaci del teatro italiano. In uno spettacolo in cui si punta quasi tutto sui dialoghi fra i protagonisti e che esalta la capacità degli interpreti non è compito facile rendere credibile un ruolo complesso come quello della protagonista di Ibsen, ma Manuela Mandracchia è sicuramente all’altezza dell’impresa. Hedda è una triste eroina che rappresenta bene la frustrazione e l’insoddisfazione dei tempi moderni, ma è anche una donna ribelle, ante litteram, alle convenzioni sociali e borghesi. {ads1}
La storia si snoda attraverso un sottile intreccio di eventi che hanno come filo conduttore il fascino e la fama della bella Hedda, figlia del generale Gabler che, dopo la morte del padre, sposa forse per interesse o forse per noia Jorgen Tesman (Jacopo Venturiero), un mediocre intellettuale. I due sono di ritorno da un viaggio di nozze durato sei mesi e si trovano alle prese con la routine di tutti i giorni: dalle visite della premurosa zia a quelle del subdolo e ammaliatore Giudice Brack (Luciano Roman). A sconvolgere la vita dei novelli sposi, felici secondo la convizione di lui, ma già in crisi a giudicare dall’atteggiamento di lei, è l’arrivo in città di Ejlert Løvborg (Massimo Nicolini). L’uomo, vecchio amante di Hedda, è un geniale scrittore che, con l’aiuto della giovane Thea (Federica Rosellini), ha scritto un testo in cui ripone le sue future speranze di gloria. In un susseguirsi di omissioni e malintesi Hedda si trova a determinare il proprio e l’altrui destino.
La messa in scena è tutta giocata sulla recitazione, sull’interazione fra i protagonisti. Gli attori non deludono anche se alcuni personaggi come quello di Løvborg risultano poco caretterizzati (se non dai suoi eccessi di ira), altri forse un po’ troppo stereotipati come il giudice interpretato da Luciano Roman, molto votato alla seduzione, ma con modalità che si spingono pericolosamente verso il clichè. Federica Rosellini riesce invece a far oscillare Thea con garbo e intensità fra i vari sentimenti che la dominano: passione, scoramento, paura. E anche la sua subitanea consolazione è resa quasi naturale dall’interpretazione della giovane attrice. Convince anche Jacopo Venturiero un marito ingenuo e illuso, che riesce a sucitare simpatia, e quasi si vorrebbe aiutarlo a vedere quella verità che ostinatamente continua a negare.
Sono molti i momenti intensi, ma anche quelli di ilarità regalati dalla contrapposizione fra l’indifferenza di Hedda e la cieca convinzione del marito di essere amato. Ma Hedda è un essere che cerca innanzitutto la libertà fino a compiere quel gesto estremo che la renderà libera una volta per tutte. E, dopo tutto, quello che resta è solo la polvere sotto un ritratto e le parole di chi non comprende e non può che dire: “Non si fa!”