Scontro Renzi-Juncker: c’eravamo tanto amati
«Ho votato Juncker perché il suo nome era legato a un documento, a un accordo politico ben preciso focalizzato sulla crescita e la flessibilità. Abbiamo deciso prima che cosa deve fare l’Europa nei prossimi cinque anni e poi chi la guiderà. […]per la prima volta il focus è sulla crescita e sulla flessibilità. Insistere sulla crescita è una svolta per l’Europa. E in quel documento c’è l’idea che parlare di crescita non è un optional ma un elemento costitutivo dell’Ue». A pronunciare queste parole, in data 27 giugno 2014, è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Erano giorni di giubilio e goliardia per l’esecutivo Renzi, reso più solido dagli ottimi risultati ottenuti alle elezioni europee tenutesi un mese addietro, tanto che i quotidiani più importanti dello stivale si sono istintivamente lanciati in un’opera di esaltazione della posizione europea del premier. Dalla stampa: «Sull’agenda, l’Italia di Matteo Renzi porta a casa un buon pacchetto», passando per La Repubblica: «I due protagonisti della politica europea in questo momento sono loro, perché sono gli unici ad aver vinto le elezioni europee nei rispettivi paesi. Soprattutto Renzi. Il premier è soddisfatto per aver ottenuto un risultato importante con l’impegno messo nero su bianco nel documento finale di una maggiore apertura alla flessibilità» hanno provato in tutti i modi a farci credere che l’Italia avesse finalmente strappato una maggior forza contrattuale nelle sedi Europee.
Due anni e mezzo più tardi i toni cambiano, eccome: «L’Italia non può più dire, e se lo si vuole dire lo si può fare ma me ne frego in realtà, che le politiche di austerità sarebbero state continuate da questa Commissione come erano state messe in atto in precedenza». Quelle pronunciate lunedì 7 novembre dal Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker sono parole che pesano, giunte in un periodo di contrasto con l’esecutivo italiano in merito alla nuova legge sul bilancio. Quest’ultima sta terminando il suo iter di approvazione in parlamento, mentre a giorni dovrebbe arrivare la “famosa letterina” della commissione tesa a rendere un parere sulla stessa legge interna.
A dirla tutta lo scontro Renzi-Juncker non rischia seriamente di comportare un rigetto tout court della legge di bilancio. Una lettera di richiesta chiarimenti dalle istituzioni Europee era giunta già nell’ottobre del 2014, ma senza conseguenze sulla vita giuridica della della normativa interna. Nessuna finanziaria infatti è mai stata bocciata dalla Commissione, ma l’impressione è che i rapporti tra Matteo Renzi e le istituzioni Europee che contano (la commissione in testa) siano sempre più incrinati.
L’ultimo episodio dello scontro Renzi-Juncker è legato alla ponderazione dei costi per le emergenze (terremoti e migranti ndr) dell’anno in corso. Nel corso di una conferenza stampa Juncker avrebbe affermato che: «Saggezza vorrebbe che tenessimo conto del costo dei rifugiati e del terremoto in italia, ma tali costi equivalgono allo 0,1% del Pil. L’Italia ci aveva promesso di arrivare a un deficit dell’1,7% nel 2017, e ora ci propone il 2,4% (in realtà sulla legge di bilancio si legge 2,3%, qualche ora più tardi il tiro verrà corretto dal portavoce dello stesso Juncker ndr). Quando, appunto, questo costo si riduce a 0,1% del prodotto». L’ex sindaco di Firenze, per difendersi, ha giocato la carta dell’interesse nazionale sbandierando la precedenza della prevenzione anti-sismica nelle scuole rispetto ai vincoli di Bruxelles.
La sensazione è che tutta questa diatriba sia una teatrale messinscena. Il motivo? Il prossimo 4 dicembre gli italiani saranno chiamati a votare per una riforma costituzionale che potrebbe dare il là a ulteriori cessioni di sovranità nazionale in favore dell’integrazione europea. Il quesito referendario apparirà per moltissimi italiani come un si o no all’esecutivo Renzi: dalle parti di Bruxelles questo l’hanno capito e per tale motivo è alquanto difficile che si decida di mettere in difficoltà l’attuale governo con una bocciatura tout court della finanziaria. Il risultato sarebbe duplice, in chiave negativa per l’Europa: a un rallentamento del processo d’integrazione Europea si accompagnerebbe una nuova ventata populista, come molti amano chiamarla, portata da un’ennesima sconfitta elettorale per un partito europeista. E nasconderla com’è stato fatto con la Brexit, le elezioni ungheresi e quelle Austriache potrebbe essere davvero difficile stavolta.
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