I Cure a Roma, tutti in piedi per Sir. Robert Smith
Tornano I Cure a Roma a quattro anni di distanza con un Tour monumentale partito prima dell’estate tra l’America e l’Australia, ripreso dai primi di settembre con date sparse in tutti i Paesi del vecchio continente che culmineranno nel gran finale di inizio dicembre con i tre show alla Wembley Arena di Londra. Un impegno mastodontico per una band che non ha più nessun disco da promuovere né nulla da dimostrare, ma che crede ancora fortemente al bisogno di darsi in tutto e per tutto alla marea di fan che accorrono in massa riempiendo le varie Arene per partecipare ad un rito collettivo che dura da quasi quarant’anni. Fatta questa premessa doverosa Robert Smith – un pò ingrigito, ma ancora scenico – & co, col fido e sodale Gallupp al basso, Roger O’Donnell alle tastiere, Jason Cooper alla batteria e Reeves Gabriels alla chitarra, si presentano alle 20,30 in punto sul palco di un Palalottomatica gremito da un pubblico di mezza età senza trucchi e rossetto o rigorosamente in nero, specchio evidente del tempo che passa da un lato, ma che non oscura la voglia indiscutibile di vivere una serata all’insegna della buona musica dall’altro. Partenza inaspettata con Shake dog Shake e ovvia standing ovation tra i riff striduli e metallici di un pezzo che la pessima acustica del Palalottomatica (possibile che a Roma non ci sia un posto decente per concerti al chiuso?)riesce immancabilmente a rovinare.
A seguire Fascination Street, A Night like This, The Walk e l’osannata Push. Niente Male come inizio, Smith accenna come suo solito qualche breve e timido ringraziamento concentrandosi sulle sue ritmiche frenetiche ben supportate da un pubblico complice. Le hit sono talmente elevate che si passa da un singolo all’altro tra la nostalgica In between days, e una Play for today rallentata dove il nostro denuncia qualche segno delle 57 primavere, ma poi Pictures of you, Lullaby e Love Song – inframezzate da una scialba Charlotte Sometimes- riportano la serata sui binari più consoni ai Cure versione 2016 che sublima nella splendida just like Heaven cantata da 5.000 voci. Dopo tanto sano pop Il flusso emotivo dei ricordi si riaccende con l’ingarbugliata From the edge of the deep green sea, una One Hundred Years in stato di grazia che riaccende gli echi lontani della trilogia dark di Pornography e una irriconoscibile Give me it rovinata da un’esecuzione caotica acuita dalla pessima acustica. Un’ora e venti filata se n’è andata e i nostri abbandonano per la prima volta il palco, ma come tutti noi sappiamo siamo solo a metà concerto e di carne al fuoco ce n’è ancora tanta. Al rientro è Smith a concedersi qualche momento a tu per tu col pubblico, il tempo necessario per annunciare l’inedita It could never be the same che scorre anonima lasciando il posto alla successiva adrenalinica Burn, scritta per la colonna sonora del film Il corvo, ma è sulla note della intro di A Forest, ben supportata dalle immagini proiettate di una foresta sfocata in pieno stile 17 Seconds, che il nastro si riavvolge again, and again and again lasciando esplodere un Palalottomatica che non aspettava altro. Altra pausa e altro rientro immediato con una trilogia non perfettamente assestata, I Cure mordono un po’ il freno e l’adrenalina cala visibilmente tra una Want fiacca e le successive Never Enough e Wrong Number discutibili sia nella scaletta che nell’esecuzione, ma mancano ancora delle hit e l’ultima pausa un po’ più lunga scorre veloce prima del gran finale.
E allora tutte d’un fiato, la bellissima e applauditissima inaspettata The Lovecats, e una scarica consecutiva di pezzi che celebrano l’icona Smith che abbandona la chitarra concedendosi ammiccante a un pubblico idolatrante. Hot,hot,hot, Let’s go to be, Friday I’m in love, Boys don’t cry, Close to me e Why can’t I be you?, tutto secondo copione e tutto trascurabile nelle sommarie esecuzioni, ma quello che conta dopo due ore e quaranta minuti filati e trentuno pezzi è l’aver celebrato, tributandogli un doveroso omaggio, una band che dal lontano 1978 si è sempre donata incondizionatamente ai propri fan e che nonostante l’età ha ancora voglia di girare il mondo per raccontarci la sua storia. Parodia di se stessi? Forse si. Incapacità di accettare l’inevitabile usura dei tempi? Anche. Scalette troppo lunghe e zeppe di hit di facile presa? Senz’altro. La risposta a tutti questi quesiti forse è da cercare dall’insolito atteggiamento di Robert Smith che, invece di uscire alla chetichella come suo solito, si ferma a fine concerto da solo per un ultimo applauso del pubblico romano che inneggia a gran voce il suo nome. Robert ringrazia e probabilmente si emoziona, ci saluta con un commosso Thank you, ma a ringraziarlo siamo noi per le splendide sensazioni che ci ha regalato in questi decenni memori che forse questa sia stata davvero l’ultima occasione per vederli banchettare dal vivo
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