Elezioni islandesi 2016, il cambiamento che non c’è stato
Nessuno sconvolgimento, nessuno scossone politico. L’inversione di rotta che ci si aspettava non c’è stata. Sabato 29 ottobre, la popolazione islandese – poco più di 300.000 persone, ha riconfermato la fiducia nei “partiti tradizionali”. Il Partito Pirata, quello da tanti definito stretto parente dei “grillini” italiani, si è dovuto accontentare di un risultato ben lontano dalle aspettative, che probabilmente lo taglierà fuori dalla possibilità di governare. Dato per favorito per queste elezioni islandesi 2016, arriva terzo con il 14% dei voti, dietro l’inaspettato 29% dei conservatori del Partito dell’Indipendenza, la principale forza politica della coalizione dimissionaria. Tra le promesse del partito vincente di centro-destra quella di abbassare le tasse e di mantenere costante la crescita economica del paese.
Elezioni islandesi 2016: un voto “contro corrente”
Perché gli islandesi, scesi in piazza ad aprile per chiedere le dimissioni dell’ex-primo ministro Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, travolto dallo scandalo Panama Papers, hanno scelto di accordare nuovamente la fiducia ai vecchi partiti? Un risultato in parte curioso, soprattutto se si guarda alle diverse tendenze europee e all’ascesa dei movimenti anti-establishment in Francia con il Front National, in Germania con l’Alternative für Deutschland, in Gran Bretagna con l’Ukip, fino ad arrivare al Movimento 5 stelle italiano con i suoi recenti successi alle comunali 2016, e la lista è ancora lunga. L’Islanda, insomma, rema contro corrente. Banalmente, si potrebbe osservare che il voto islandese chiede continuità. Scombinare le carte in un paese in cui è in atto un piccolo miracolo economico e il benessere si tocca con mano avrebbe avuto conseguenze imprevedibili, e questo ha inciso sulla decisione degli elettori. Desiderio di stabilità e paura dell’ignoto, più che fiducia nella politica tradizionale. Non abbastanza tempo è trascorso perché gli islandesi dimenticassero lo shock del 2008, quando fallirono le tre principali banche del paese e il pil crollò del 60%. Dopo il collasso, l’Islanda si è rimessa in piedi da solo, senza l’aiuto di organismi internazionali. Probabilmente anche questo è il motivo per cui la voglia di rischiare non ha prevalso e l’interesse ad entrare a far parte dell’UE scarseggia. Maggioranza o no, resta comunque un dato importante: qui come altrove, a trascinare l’avanzata dei “pirati” è l’elettorato giovane. Un fattore che la politica tradizionale non dovrà sottovalutare per il futuro.
Piratar: Free web e democrazia diretta
Al di là della delusione di chi ne dava la vittoria per certa, il risultato del Partito Pirata resta comunque clamoroso. Entrato in parlamento – il più antico d’Europa – per la prima volta nel 2013 grazie alla conquista di tre seggi, con le elezioni di domenica ha triplicato i suoi voti diventando la terza forza politica del paese. Guidato da Brigitte Jónsdóttir, i capisaldi di Piratar, questo il nome del partito, sono la riforma del diritto d’autore, trasparenza, libertà d’informazione e l’istituzione di una democrazia diretta via web. Jónsdóttir – poetessa, artista ed ex attivista di Wikileaks – aveva promesso di spazzare via la corruzione, l’aumento delle tasse per i più ricchi, un maggiore coinvolgimento degli islandesi nel processo legislativo e l’asilo politico per Edward Snowden. Difficile negare le tante somiglianze con il M5S italiano. Come quest’ultimo, anche Piratar è nato sul web e si definisce un partito anti-establishment schierato né a destra né a sinistra. Quasi nessuno tra gli attivisti possiede un background politico. Ed entrambi i partiti condividono sentimenti euroscettici, comuni anche al vincitore Partito dell’Indipendenza.
Un’occasione mancata
In un paese in cui sono ben 7 i partiti a contendersi i seggi in parlamento, era chiaro fin da subito che chiunque fosse arrivato primo non avrebbe potuto governare da solo. Il primato del centro-destra sembra così tagliare fuori i pirati da ogni alleanza; il partito di Brigitte Jónsdóttir non è riuscito a veicolare a pieno la delusione degli elettori, a rompere definitivamente gli equilibri in un contesto in cui il sistema dei partiti tradizionali è in difficoltà. È stato, probabilmente, lo spettro dell’inesperienza politica a frenare gli islandesi alle urne, il desiderio di cambiamento. Resta aperta la domanda sul futuro della politica convenzionale, data per assodata la longevità dei nuovi partiti populisti o simil-tali, tutt’altro che meteore passeggere.
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