L’esodo africano dalla Corte penale internazionale ha appena avuto inizio
Ha avuto inizio l’ esodo africano dalla Corte penale internazionale (CPI), tribunale per i crimini internazionali che ha sede all’Aia, nei Paesi Bassi. Un altro paese africano ha infatti annunciato di voler abbandonare l’istituzione. È stato il Gambia, mentre il Burundi e il Sudafrica lo avevano già annunciato giorni fa. Il motivo? «La Corte è pensata per punire ed umiliare la gente di colore, in particolare gli africani» ha dichiarato Sheriff Bojang, ministro della Comunicazione gambiano. L’accusa rivolta alla CPI da Bojang è quella di essere «uno strumento volto alla persecuzione dei soli leader africani» e di non voler occuparsi dei crimini commessi dall’Occidente, riferendosi all’incapacità della Corte di procedere contro l’ex primo ministro britannico, Tony Blair, per la guerra intrapresa contro l’Iraq. Il presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, ha promulgato il 19 ottobre scorso una legge che confermava l’uscita dalla Corte e il Sudafrica ha notificato alle Nazioni Unite la sua decisione di lasciare la CPI, in seguito ad un fatto avvenuto nel 2015. Il Sudafrica si era infatti opposto all’arresto di Omar al Bashir – presidente sudanese verso il quale la Corte dell’Aia ha spiccato due mandati d’arresto nel 2009 e nel 2010 per i crimini commessi in Darfur – durante un incontro dei capi di stato dell’Unione africana svoltasi a Johannesburg.
Si teme che questo possa essere solo l’inizio di un esodo africano dalla Corte penale internazionale in un continente caratterizzato dalla presenza di una lunga lista di conflitti e abusi dei diritti umani. Inoltre, recenti avvenimenti lasciano pensare all’imminente uscita di altri tre Stati, il Kenia, la Namibia e l’Uganda, che segnerebbe una rivoluzione per l’istituzione, la cui legittimazione dipende ampiamente dall’adesione dei suoi membri.
Il disaccordo degli stati dell’Unione africana con la Corte penale internazionale non è cosa nuova. La Corte dell’Aia è stata infatti oggetto di dure critiche sin dalla sua istituzione, nel 2002. Le motivazioni addotte dai leader dell’Unione africana riguardano la percezione di un abuso della giurisdizione da parte della Corte, in considerazione del fatto che tutti i casi oggetto di indagini coinvolgono Stati africani, fatta eccezione per uno. Inoltre, a rafforzare questa percezione ha contribuito il fatto che l’Africa rappresenti il continente con il maggior numero di Stati (34) ad aver accettato la giurisdizione della CPI, mentre tra i 123 membri non compaiono Stati Uniti, Cina, Russia, India o Israele.
Nonostante le critiche, la CPI resta uno dei pochi luoghi per le vittime di genocidio, crimini di guerra e altre aggressioni, in cui chiedere giustizia. Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha invitato il Burundi e il Sudafrica a rivedere le loro decisioni. Ken Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha affermato che se gli Stati africani decideranno di lasciare la Corte, anziché tentare di riformarla, «non vi sarà più giustizia per gli innumerevoli africani che hanno subito omicidi, torture, stupri o sono stati costretti a diventare bambini soldato».
Ricordiamo che nel 2002 è stato ratificato lo Statuto di Roma che ha istituito ufficialmente la Corte penale internazionale (International Criminal Court, ICC). La CPI è un organo indipendente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, con la quale coopera. Essa persegue gli individui e non gli Stati per i crimini di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Corte non ha potere retroattivo sui crimini commessi prima del 1 luglio 2002, data di entrata in vigore dello Statuto di Roma. La CPI ha giurisdizione nel territorio degli Stati parte; nei Paesi terzi, se i crimini sono stati perpetrati da individui cittadini di Stati parte dello Statuto; in altri Stati, se i crimini sono stati segnalati al Procuratore della CPI dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
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