Carlos Atoche: l’intervista impossibile ad un artista inafferrabile
Reticente, silenzioso, poco avvezzo alle foto e a rilasciare interviste, Carlos Atoche, è sicuramente un artista singolare nel grande teatro dell’arte contemporanea. Nato a Lima nel 1984, da madre argentina e padre peruviano, nelle vene di Carlos Atoche scorre un DNA già di per sé colorato, ricco di sfumature partorite da culture diverse. Nel 2000 viaggia per la prima volta in Europa e nel suo peregrinare fra la Spagna e la Francia, giunge in Italia: folgorato dalla pittura e dall’architettura della penisola, decide di trasferirsi a Roma, città in cui si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti con con una tesi pratica sulla Mona Lisa. Ma è successivamente al periodo della formazione che la sua arte esplode e decolla, manifestandosi come un’ascesa spirituale, sulle superfici murarie della città eterna. Entrare nel mondo di Carlos Atoche non è semplicemente un’impresa difficile, è qualcosa di più. Per avere la certezza su ciò che pensa, toccherebbe consultare l’oracolo di Delfi e aspettare pazientemente il responso del dio Apollo. Ma nonostante queste premesse, siamo riusciti a strappargli, letteralmente, questa intervista.
Carlos, abbiamo imparato a conoscere (e a riconoscere), il tuo tratto artistico attraverso i murales che sbucano piacevolmente come fiori, fra un edificio e l’altro. Com’è cominciata la tua carriera da street artist?
Innanzitutto vorrei dire che il mio approccio con l’arte risale al periodo dell’infanzia: è stato come una chiamata, una voce. La mia carriera, invece, è cominciata intorno al 2010. Quando nel 2003 sono arrivato a Roma, non c’erano molti murales, ma comunque qualcuno aveva già cominciato a dipingere e io mi sono unito a questo ‘movimento’ mentre frequentavo l’Accademia. Il lavoro per strada è diverso da quello in studio: tocca camminare molto con secchi pieni di colore e richiede il dialogo con le persone, si tratta di un rapporto diretto. Il mio primo murale in assoluto l’ho fatto al Pigneto nella famosa (per noi che frequentiamo questo quartiere), ‘piazzetta dei cani’. È stata un’esperienza molto buffa: c’era una signora che mi aveva chiesto di disegnare la fontana di Piccadilly Circus a Londra, così ho ripetuto, sulla parete, alcuni cavalli in sequenza. Ma poi, ad un certo punto, arriva il marito che invece desiderava, sulla stessa parete, un Che Guevara grande. Così ho accontentato anche lui e il risultato è stato davvero divertente: i cavalli con un Che gigante che pensa e immagina chissà cosa. Una dato è certo: un muro non è mai soltanto un muro, è un accumulo di vita.
Qual è stata la spinta emotiva che ti ha portato a dipingere per strada e quali sono i tuoi luoghi prediletti per dare sfogo alla tua creatività?
Lo faccio per rendere i quartieri meno degradati: cambiano completamente aspetto ed energia dopo un’intervento artistico. Adesso che l’arte è molto chiusa in sé stessa, penso che sia molto giusto farla per strada: in questo modo fai arrivare la pittura sì dove non c’è, ma dà la possibilità a chiunque di vederla senza dover pagare necessariamente un biglietto. Intendiamoci, l’arte in strada e quella esposta in galleria, sono più o meno la stessa cosa: quello che fai all’aperto, puoi tranquillamente riproporlo in galleria e viceversa. Sono due cose diverse, ma non in conflitto fra loro: due realtà che stanno lì e si possono incontrare, dal mio punto di vista. Fra i miei luoghi prediletti per dipingere rientrano sicuramente la fabbriche abbandonate: sono un posto tranquillo in cui si può lavorare per ore, senza essere disturbati, situazione impossibile quando si dipinge per i quartieri. Secondo me, la fabbrica, rappresenta un momento di crescita personale di ogni artista: ti incontri con te stesso e avvii una ricerca interiore. È un’esperienza unica e chi ha avuto modo di viverla lo sa. È portare vita in un posto morto: diventa una sorta di estensione archeologica. Ogni posto poi ha una magia diversa, come gli ex manicomi. Ad esempio, presso l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, sulla pista di pattinaggio, ho disegnato “La scelta del filosofo”: un uomo avvolto fra le lenzuola, metafora di quelle persone che erano rimaste legate, non tanto fisicamente ma piuttosto dal punto di vista emotivo.
In questo scenario poetico e sentimentale, è arrivato inevitabilmente il momento dello scontro, che ha visto al centro un tuo murale, fra il sacro e il profano, realizzato ad Avellino nel 2015 e successivamente deturpato e cancellato da ignoti. Ti sei fatto un’idea sul motivo che ha portato a questa tua ‘crocifissione’ pubblica?
Il murale della polemica rappresentava una donna che sorreggeva una piccola scimmia. In molti vi hanno visto una Madonna e la scimmia dunque era, per associazione, Gesù bambino. Addirittura una signora si è avvicinata dicendo che la mia mia opera era legata a Satana e al Diavolo. Non ho avuto neanche il tempo di dirle una parola o il modo di provare a spiegarle qualcosa a cui non so neanche io dare io un significato nell’immediato (perché lavoro così: ho semplicemente un’idea in testa, un’immagine, ma che poi cambia in corso d’opera) che è scappata via. Ho impiegato tre giorni per realizzarlo ed è stato cancellato subito dopo la mia partenza. Nonostante ciò, sono ritornato a portare bellezza ad Avellino con “L’addolorata”, una donna ritratta nel momento del pianto. L’opera è stata accolta meglio, ma non troppo. [Si dice che ci sia stato un lancio di pietre da parte di alcuni passanti ndr]
Carlos Atoche è ispirato dall’arte del passato dei grandi italiani ma anche dal pittore e scultore colombiano Fernando Botero, influenza che si riscontra subito nelle forme rotondeggianti dei suoi soggetti. Ultimamente si è avvicinato alla cultura degli Incas, circostanza che lo ha spinto a intraprendere un nuovo percorso da scultore: ha realizzato un enorme piede con carta da riciclo e giornali, primo lavoro di una lunga serie statuaria che avrà come protagonisti anche altre parti del corpo. Nel 2010, inoltre, Carlos, insieme ad alcuni amici dell’Accademia (Luis Alberto Alvarez, Francesco Campese, Antonio Russo, Roberto Farinacci, Mattia Arduini, Luis Alberto Cutrone) ha dato vita allo Studio Sotterrano: non è semplicemente un luogo lavorativo, ma anche un posto in cui si ospitano mostre, concerti e workshop.
Carlos Atoche è una fonte di mistero, una creatura indomabile e non ci si sorprende molto se alla domanda “cos’è per te la follia?” non si astiene dal rispondere, senza filtri, “la follia è sentirti parlare adesso”. Di indole proteiforme e dunque, difficilmente gestibile, Carlos Atoche è un’artista tutto da esplorare.
A questo punto non vi resta che andare a verificare, con i vostri occhi e il vostro udito, queste informazioni.
© Foto di Emanuela Robustelli e Oscar Giampaoli
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