Habitat III: città più inclusive sì, ma non per i gruppi LGBT
Il 20 ottobre si è conclusa a Quito, in Ecuador, Habitat III, la conferenza internazionale sul tema dello sviluppo urbano sostenibile, organizzata dall’agenzia delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (Un Habitat). Scopo dell’incontro è stato quello di rilanciare l’impegno globale sui temi dell’urbanizzazione sostenibile e sull’attuazione della Nuova Agenda Urbana, documento adottato in questa occasione. Terza conferenza sul tema dello sviluppo urbano sostenibile, dopo quella celebratasi a Vancouver nel 1976 e in seguito ad Istanbul nel 1996, Habitat III ha visto la partecipazione di circa 45.000 delegati, tra rappresentanti dei governi nazionali, comunità locali, società civile, comunità accademica e molti altri ancora, sebbene essa si sia svolta nella quasi totale indifferenza da parte dei media nazionali ed internazionali.
In sostanza, la Nuova Agenda Urbana riconosce come ostacoli allo sviluppo sostenibile globale «la persistenza di numerose forme di povertà, le crescenti disuguaglianze e la degradazione ambientale, accompagnate dall’esclusione sociale ed economica e dalla segregazione spaziale, che costituiscono spesso realtà indiscutibili nelle città e negli insediamenti umani». L’Agenda viene pertanto individuata come lo strumento volto a facilitare «la riduzione del livello di povertà, l’eliminazione delle disuguaglianze, la promozione di una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, il miglioramento della salute e del benessere e il rafforzamento della resilienza e della protezione dell’ambiente». In poche parole, «una lista dei desideri lunga 23 pagine» – come l’hanno definita Francesca Perry e Mike Herdy del The Guardian – frutto di una serie di negoziazioni culminate a settembre nell’adozione, a New York, di un documento condiviso. Inoltre, sembra essere passata inosservata anche la diatriba consumatasi intorno alla questione relativa alla tematica dell’inclusione. La Nuova Agenda Urbana sostiene infatti di essere l’espressione dell’impegno politico degli Stati nel «promuovere città ed insediamenti umani in cui tutte le persone possano godere di uguali diritti ed opportunità, così come delle loro libertà fondamentali» e, come afferma il The Guardian, utilizza il termine «inclusiva» 36 volte per descrivere la tipologia di città a cui ispirarsi. Ma secondo Ada Colau, sindaca di Barcellona, «una città non può dirsi democratica ed inclusiva se non riconosce i gruppi LGBT come cittadini di prima classe, con uguali diritti e libertà». Infatti, proprio sull’introduzione del riconoscimento dei diritti LGBT all’interno dell’Agenda si sono scontrati nel corso delle negoziazioni, da un lato il Canada, spalleggiato da Unione europea, Stati Uniti, Messico, Argentina e Colombia e dall’altro un gruppo di 17 Stati, capeggiato dalla Bielorussia e sostenuta, tra gli altri, dalla Russia, che è riuscito a bloccare l’inserimento dei gruppi LGBT tra i gruppi vulnerabili, su cui il documento richiama le parti ad agire per eliminare ogni forma di discriminazione nei loro confronti.
Se Habitat III e la Nuova Agenda Urbana dovevano essere quindi strumenti orientati all’azione, attraverso cui «riconsiderare nuove modalità con cui costruire, gestire e vivere le città», assicurando una maggiore inclusione di tutti i cittadini, allora, forse, abbiamo di nuovo perso un’occasione.
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