L’artista Casey Jenkins: un dritto, un rovescio e un gomitolo nella vagina
Le forme d’arte, quando incontrano il genio contemporaneo ed osano su nuovi significati, hanno spesso da confrontarsi con una perplessità importante, quella dello spettatore che, quell’arte, evidentemente non l’ha capita. Ora, è certamente vero che gli artisti fanno a gara per stupire, perché su quella perplessità lì, sperano di poter forzare il significato delle loro performance… E sul terreno delle arti si sa, ben vengano critiche e resistenze, purchè se ne parli.
Non deve averla pensata molto diversamente nemmeno l’artista australiana Casey Jenkins che, per 28 giorni, ha intrapreso una maratona artistica che i più ironici hanno già ribattezzato vaginetto.
Tutto nasce dalla volontà di questa giovanissima artista di protestare contro l’attuale condizione delle donne nella società. Casey ha scelto come strumento di protesta dei ferri da calza e dei gomitoli di lana, che ancora oggi restano un simbolo prettamente femminile; tuttavia, non aspettatevi una contestualizzazione ordinaria né dei ferri e dei gomitoli di lana, né della fanciulla, che vi assicuriamo non è seduta alla finestra a guardare l’orizzonte sferruzzando. Casey infatti, membro del gruppo Craft Cartel, i cui componenti utilizzano l’arte per portare a galla problematiche sociali legate alla condizione femminile, con la sua performance Casting Off My Womb, per 28 giorni lavorerà a maglia tirando la lana da un gomitolo inserito nella vagina, anche nei giorni del ciclo.
Non ci credete? Basta guardare con i vostri occhi il video che la ritrae intenta a lavorare a maglia presso la galleria Darwin Visual, che l’emittente australiana SCS ha postato su You Tube e che, in poco tempo, ha raggiunto oltre i due milioni di visualizzazioni. Enorme la mole dei commenti, molti dei quali sono stati bloccati. Ma concentriamoci su quelli dell’artista che, dalla denuncia generica della condizione femminile, con la sua performance craftivism, (termine coniato nel 2003 dalla sociologa Betsy Greer, per tutte quelle espressioni artistiche che vogliono trasformare lavori artigianali e tradizionali in strumento di cambiamento politico e sociale), dice di voler invitare la società a non guardare con paura l’organo genitale femminile: «C’è un atteggiamento misogino verso la vulva e repulsione per l’audacia del mio atto. Prenderò le risposte negative e commenti infiammati per farne una nuova opera. La reazione di queste persone non fa che convalidare mio lavoro» ha infatti dichiarato la sferruzzatrice australiana. E così, critiche e commenti a parte, Casey per 28 giorni si siederà nuda, indossando solo un maglione di lana, e lavorerà alla sua sciarpa che, ogni giorno che passa, si allunga sempre di più.
Da donne e da persone che, premettiamo, sono particolarmente attente al panorama artistico, anche nelle sue più ardite rappresentazioni, restiamo più stupite dalla Casey che cade dal pero perché impreparata a tanto scalpore, che dalla sua scelta, personale, di inserirsi un gomitolo nella vagina. Come poteva infatti non aspettarsi clamore avendo lanciato su You Tube un video che la ritrae filante dalla vagina e mezza nuda? Perché a Casey, il piacere di stupirci noi lo lasciamo volentieri, purchè non sottenda anche il desiderio di trattarci da idioti. Cara Casey, per quanto amanti dell’arte performativa, ci riteniamo libere di pensare che un gomitolo nella vagina non faccia poi così bene, indipendentemente dall’elasticità che questo magico organo ha nel suo dare la vita; Inoltre, ci sia anche concesso di dire che, la lana filante durante il ciclo mestruale, ora come ora, ci regala un’immagine non solo anti igienica, ma tendenzialmente esagerata. Infine, non riusciamo ad evitare di pensare che il gesto di Casey, per essere una performance visivamente ed emotivamente violenta, appaia più un atto di mera e funzionale pubblicità, che una sentita e necessaria comunicazione sociale – per quella infatti, forse non occorreva la vagina in mostra, e non perché fa troppo discutere, ma perché di quelle già ne abbiamo quotidianamente fin troppe.
A questo punto, anche l’intento femminista sembra vacillare. Una verità resta: la performance nel suo insieme e l’adattamento in galleria, non è niente male, ma il resto subisce l’odierno rischio dell’arte, che lascia ad ognuno la sua migliore interpretazione.