Intervista a Martina Duchi – Attrice, Regista e Teatroterapeuta
All’interno del grande calderone mediatico, spesso gli argomenti di utilità sociale e assistenziale sono sopraffatti da cose frivole e inconsistenti, e per tale motivo gran parte delle persone sono ignare di alcune realtà teatrali profondamente terapeutiche. Una di queste realtà, ancora poco esplorate nell’ambito della divulgazione mediatica europea è, senza dubbio, la Teatroterapia. Si tratta di una forma di “arteterapia” volta, da un lato, ad offrire sostegno a coloro con sintomi di evidente malessere e, dall’altro, ad intervenire favorevolmente su diverse patologie e disturbi del comportamento umano, con il fine di promuoverne il benessere psico-fisico e sociale. Tuttavia, per comprendere meglio i diversi settori in cui la Teatroterapia può intervenire. A tal proposito abbiamo intervistato Martina Duchi, attrice, regista, Teatroterapeuta e Fondatrice dell’Associazione culturale Nostos, nonché ideatrice del lungometraggio dal titolo “Svegliami TU”, realizzato con l’obiettivo di far calare il pubblico nella drammatica visione di chi soffre di Dipendenza Affettiva. Tale patologia, nell’accezione più comune del termine, porta ad avere rapporti disordinati con i legami affettivi, continuamente scanditi da una quotidianità fatta di assenze e attese, unite a un senso di morte che accompagna l’idea di essere abbonati.
“A volte c’è molta più morte nel restare dove si è che nel separarsi. Di Te è bella anche l’assenza.”
La Dipendenza Affettiva nella donna è un tema poco affrontato e poco conosciuto al giorno d’oggi. Poche sono le istituzioni teatrali che si occupano di questa forma di dipendenza. Tra queste, sicuramente, rientra l’associazione culturale Nostos, della quale lei è fondatrice. Può spiegarci come nasce?
Si è un tema poco conosciuto in Italia. In America, mi sembra se ne parli da una trentina di anni. Il Teatro non si è mai occupato esplicitamente della Dipendenza Affettiva. Quando dico “esplicitamente”, mi riferisco alla capacità di considerare la Dipendenza Affettiva per quello che è: un Disturbo, appunto. Ho lavorato tanto con la Disabilità e anche con i bambini. Ho affiancato anche diversi registi. Per ciò ho collocato la mia ricerca sulla Dipendenza Affettiva in un contesto Teatroterapeutico, avvalendomi anche del confronto con Psicoterapeuti, Medici, Pedagogisti ed Educatori. Infatti, i miei obiettivi non sono puramente legati alla messa in scena ma volti ad avere un’utilità sul piano sociale e educativo. Si tratta di criteri che il Teatro, in sé, non avrebbe mai potuto soddisfare. Per quanto riguarda la mia Associazione Nostos, è stata fondata nel Novembre del 2015, insieme ad altri 2 esperti a me vicini. Ci occupiamo di Arte su due fronti: uno è prettamente estetico, in quanto proponiamo spettacoli che vanno dal Teatro alla Danza alla Performing Art; dalla Scherma Scenica medioevale e rinascimentale fino alla Make Up Art. Mentre un altro fronte, che è poi quello che c’interessa di più, è volto alla promozione del benessere psicofisico e sociale, attraverso attività di Teatroterapia, Arti Marziali e Formazione di varia natura.
In base alla sua esperienza professionale che cos’è la Teatroterapia?
La Teatroterapia è una terapia di gruppo a mediazione teatrale, condotta da una figura professionale specifica: il Teatroterapeuta. Da ciò si evince che la Teatroterapia ha due anime: una, di matrice psico-educativa e l’altra di tipo artistico-teatrale. Entrambe queste nature coesistono. Il Teatroterapeuta deve perciò portare avanti due livelli di formazione e pratica lavorativa permanenti: quella da educatore/psicologo/psicoterapeuta/formatore e quella da attore/regista/artista. A questo punto, si capisce cosa invece non-è la Teatroterapia. Non è, ad esempio, Teatro Integrato o Teatro rivolto a soggetti con Handicap. Ma attenzione: non è nemmeno Psicoterapia fatta a teatro o condotta da Psicoterapeuti o Educatori che, avendo fatto qualche esperienza teatrale qua e là, cercano di creare un mix tra le due discipline. Non è una mistura che si ottiene semplicemente unendo Teatro e Psicoterapia. Entrambe forniscono il repertorio cui attingere tecniche che sono rivisitate e metabolizzate alla luce di criteri del tutto tipici e autonomi.
In che modo la Teatroterapia può offrire il proprio contributo nel trattamento della Dipendenza Affettiva nella donna?
Certamente sul fronte dell’accoglienza e della comunicazione, volta al riconoscimento soggettivo del Disturbo. Attraverso un delicato processo di gruppo, che si serve di mediatori artistici – preciso la potente funzione catartica dell’Arte – la persona inizia anzitutto a capire che il problema la riguarda. A differenza del teatro stiamo parlando di pianificazione mirata di un intervento che ha per obiettivo l’evoluzione rispetto a uno stato di estremo malessere, grazie a un processo che garantisce possibilità di supporto in ogni sua tappa. Ci sarebbe da dire molto altro ancora ma rischio di dilungarmi troppo.
Come lei ha specificato, non lavora con gruppi specifici di donne che soffrono di Dipendenza Affettiva. Piuttosto tratta questo genere di disturbo all’interno di gruppi più ampi, come i gruppi misti. Può spiegarci meglio, secondo la sua personale visione, il motivo per cui la creazione di gruppi esclusivamente composti da donne che posseggono una diagnosi non è funzionale nel caso della Dipendenza Affettiva?
I gruppi “puri” e non integrati sono molto difficili da creare, questo lo testimoniano anche le addette dei centri Anti-Violenza. La donna affettivamente dipendente è assai reticente a riconoscersi bisognosa d’aiuto. Inoltre, è anche molto restia a condividere l’esperienza con un gruppo di pari. Soprattutto nei piccoli centri, dove ci si conosce anche solo di vista, è complicatissimo. Comporterebbe, fra le altre cose, un link col diretto interessato, l’uomo che maltratta, che fa uso di sostanze, che tradisce. Portarla a riconoscere le responsabilità del partner è un traguardo difficilissimo da raggiungere. Prevede un’evoluzione importante sul piano della presa di coscienza del proprio stato e del sistema di vita che la circonda.
Inoltre, come ho già ribadito, non credo un gran che nel “separatismo”, nei programmi rivolti solo ad una specifica categoria umana (ad esempio Teatro solo per Disabili, solo per anziani, solo per donne con Disturbi Alimentari ecc…). Ovviamente, se mi è richiesto per lavoro, devo farlo. Ma se dovessi dirle che la questione mi convince… proprio no.
O meglio: è una modalità che non va disdegnata e ha la sua efficacia, purché rappresenti una tappa circoscritta, che faccia capo a un percorso più ampio e che preveda la presenza – appunto integrata- di chi possiede difficoltà differenti o, magari, dei così detti normodotati.Ciò non toglie che, per la Dipendenza Affettiva, è funzionale la creazione di gruppi integrati composti da donne che posseggono una diagnosi vera e propria, donne che si riconoscono bisognose di aiuto e donne che non ne soffrono affatto ma che si mostrano sensibili al problema. Questo perché l’approccio teatroterapeutico è di tipo non-clinico e non puramente-artistico, ma culturale. Io non “attiro” ai miei corsi nessuno. Ma puntualmente, in ogni gruppo di adulti mi ritrovo persone – sia uomini che donne – che hanno in qualche maniera un rapporto disordinato coi legami affettivi.
Perché, da parte del mondo medico e Psicoterapeutico, è importante avvalersi della figura del Teatroterapeuta?
Perché chi soffre di D.A. è istintivamente attratto dalle soluzioni “dolci” che offriamo. Una proposta è dolce quando non ghettizza, non appiccica la pecetta di sano o malato. Vuole solo creare una zona liminale di dialogo, in cui il problema o tema saliente è, tanto per cominciare, “trattato” per ciascuno a proprio modo e secondo i propri tempi.
A seguito di un’esperienza di teatro condotta presso una comunità di recupero per le Tossicodipendenze, lei nel 2009 ha intrapreso una ricerca che ha portato alla creazione del suo lungometraggio, dal titolo “Svegliami TU”. Quel “Svegliami TU” a chi o che cosa si riferisce?
Quel Svegliami “TU” si riferisce a un attributo specifico e comune, fra le donne che ho conosciuto: la tendenza a delegare all’esterno, ad altri, la responsabilità della propria rinascita. Come dire: il mio risveglio esistenziale avverrà se “Tu” ci sei per me, se “Tu” vegli sul mio dolore, se “Tu” mi salvi, se “Tu” ti fai carico di me. Un po’ come la fiaba della Bella Addormentata. La metafora della principessa ricorreva spesso nei loro racconti e, di conseguenza, è una costante anche all’interno del video. Ci tengo a precisare che il lungometraggio vorrebbe assolvere a un’importante funzione meta-cognitiva. Si tratta di un’occasione di confronto con se stessi abbastanza impegnativa. Nel mio intento, nessuno deve guardarsi il film sulla comoda poltrona che normalmente si riserva ai “normodotati”. Vorrei che ciascuno, visionandolo, si domandasse: “E io? Come mi colloco rispetto a quello che sto vedendo?”.
In base alla sua esperienza professionale è corretto affermare che esistono più teatri?
Come accade in ogni settore, all’interno del grande calderone del Teatro, vi sono un’infinità di generi diversi: Teatro-Danza, Teatro di Figura, Commedia dell’Arte, Teatro di Prosa, Teatro di Strada, Teatro dell’Oppresso, Teatro-Performance, Teatro Sociale e così via. Come in ogni altra disciplina, esistono degli orientamenti. Ecco, io preferisco sempre parlare di orientamenti, per farmi comprendere sia da chi è convinto che il Teatro sia quello di Prosa e basta, sia da chi crede solo nel proprio. E’ un modo con cui sostengo il diritto all’identità e al rispetto delle differenze, anche in ambito artistico. Può sembrare una questione di puntiglio ma non lo è e forse solo chi lavora come me nel settore dello spettacolo può capirlo. A volte, le diversità tra un orientamento e l’altro sono talmente forti che è veramente difficile dialogare non solo fra artisti, ma anche col pubblico. Avrà sentito dire di gente che, in pieno spettacolo, si sia alzata in piedi e se ne sia andata via indignata. Come forma consapevole di protesta mi sta benissimo. Non mi piace ma ci sta. Quasi sempre però, accade perché le persone si trovano di fronte qualcosa che sovverte gli equilibri delle proprie conoscenze. Ora le pongo io due domande: La colpa, in questi casi, è del regista o di chi non s’informa neanche di ciò che va a vedere?
Non le pare strana questa nostra imperterrita avversione per la diversità, per ciò che minimamente si discosta dalle sicurezze che abbiamo, dalle conoscenze che crediamo di avere? Quanta gente dice: “L’Arte Contemporanea mi fa schifo”. Ebbene, l’Arte Contemporanea la conosciamo? Troppo spesso non ci piace qualcosa semplicemente perché iniziare a conoscerla è una gran fatica. Ma avere la possibilità di scegliere tra tante proposte diverse, non è forse la massima espressione di libertà culturale? L’esercizio della libertà è una patata bollente. Sollevo la questione perché ricorre spesso, quando nei gruppi ci sono persone con Disturbi da Dipendenza in genere. Mi tornano in mente le parole di un allievo, durante un corso tenuto in una Comunità di Recupero: «Ammutinarsi dal giogo della droga, alla ricerca della libertà. Ma una volta che la si trova?»
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