Stan Wawrinka non sbaglia un colpo e vince la terza finale Slam su tre disputate contro un Djokovic menomato. Gran torneo di Nishikori, battuto il favorito Murray, declino di Nadal, il vuoto di Federer. Kerber vince il suo secondo major dell’anno, l’ape operaia è ora numero 1 del mondo.

Tre Slam come Murray, pur senza i tanti titoli nei Mille conquistati dallo scozzese. Quando nel 2014 Wawrinka iniziò l’Australian Open aveva 28 anni e nessuno avrebbe immaginato che sarebbe giunto a 31 con un bottino così variegato. Lo svizzero ha avuto il merito, in queste ultime stagioni, di inserirsi in un contesto mondiale con Federer e Nadal in declino per differenti motivi, raccogliendo con bravura quanto lasciato per strada da Djokovic. Da sempre caratterizzato dal sontuoso rovescio a una mano, ha reso più efficace il suo dritto e più solida la sua prima di servizio. Molto merito alla sua tardiva crescita va ascritto a Magnus Norman, che lo segue dal 2013. Gran giocatore a cavallo del millennio, vincitore al Foro e finalista a Parigi, aveva riportato da coach già con Soderling le capacità di lettura della partita mostrate in campo.

Non è stato un gran torneo, la finale ha vissuto in crescendo emotivo e di intensità ma si è mantenuta su un piano inferiore rispetto ad alcune delle sfide fra i suoi attori negli ultimi tre anni. Djokovic vi si è presentato senza aver fugato i dubbi di una condizione incerta che, dal dopo Parigi, gli ha regalato molte delusioni. Il tabellone favorevole e i ritiri di tre dei suoi avversari prima o durante i match del torneo hanno rimandato ogni sentenza, anche se già con Monflis si era sentito qualche scricchiolio.

Per circa mezz’ora, arrivato a due set point sul 5-2 15-40, si è nuovamente ammirata una versione di Nole simile all’originale. Solo un’illusione, giunto il primo black out, doppio fallo e controbreak al momento di chiudere. Wawrinka ha poi restituito il favore, conquistando il punto più bello del tie break senza poi aggiudicarsene altri. Molti più errori che vincenti, pochi scambi combattuti, svizzero sottotono ma capace in avvio di secondo di scattare, farsi rimontare per poi piazzare il break decisivo sul 5-4 grazie ad un gran dritto ad ottenere due set point, impattando in un game ricco di errori di Nole. Il terzo set è stato probabilmente a livello di pathos il momento migliore. Wawrinka si è difeso nel gioco di apertura, è salito 3-0, si è fatto ancora rimontare e l’equilibro è rimasto fino al 6-5, quando il rovescio ha tradito il serbo. Pareva la svolta: lo svizzero è salito 3 a 0 nel quarto, epilogo vicino. A questo punto Djokovic, visibilmente e forse esageratamente sofferente, ha chiesto il TMO per un problema all’alluce destro, fra le proteste di Wawrinka per il prolungarsi della pausa. Alla ripresa, sul 3-1, Nole aveva un ultimo sussulto, tre palle break per riaprire la frazione, ma Stan li annullava, chiudendo poi 6-3 l’ultimo game ai vantaggi, al secondo match point.

Il titolo agli US Open porta Wawrinka in una ristretta cerchia. Djokovic resta il n.1 incontrastato ma non è più il padrone assoluto, vedremo se recupererà l’efficienza fisica smarrita. Nella sua grande carriera resta al momento come principale basso il record di 5 finali perdute su 7 a NY, sulla superficie preferita.

Nishikori ha offerto lo spettacolo migliore, la sua vittoria su Murray è stata la principale sorpresa oltre che il match del torneo. Per quasi due set della semifinale ha sorpreso Wawrinka giocando un sistematico tennis di attacco prima di calare. Nei quarti lo svizzero aveva piegato il DelPotro, il cui rientro ad alti livelli dopo la finale olimpica è la migliore notizia di questa estate tennistica. Triste, solitario y final sembra essere l’epilogo di Nadal. Ha perduto agli ottavi al tie break del quinto da Pouille, poi scherzato da Monflis. Gli anni di gloria paiono alle spalle. Roland Garros e US Open ci hanno mostrato un’anteprima di come sarà il tennis dopo Federer e non siamo pronti: rischiamo di salutare la sua era e rimpiangerla fino alla vecchiaia, non tanto per le vittorie quanto per le opere d’arte di cui già ci sentiamo privati.

Nel femminile la rivoluzione è in atto. Serena Williams si sta arrendendo alle 35 primavere, ha perduto in semifinale dalla Pliskova, dal gioco potente e aggressivo, in costante ascesa. In finale alla ceca non è bastato arrivare 3 a 1 al terzo e giocare più vincenti. Ha dovuto arrendersi alla formichina del circuito, quella Kerber che tutto rimette dall’altra parte della rete. Quando uscì la nouvelle vague del tennis tedesco, sembrava essere lei la meno talentuosa del gruppo di Petkovic, Lisicki e Georges. È invece arrivata alla gloria Slam, laddove le storiche difenditrici del circuito, da Jankovic a Wozniacki, hanno fallito. Al titolo australiano ha fatto seguire la finale di Wimbledon, l’argento olimpico e questi US Open. Ha scavalcato Serena e ora è la n.1. Non sarà entusiasmante da vedere, ma per corsa e regolarità merita di essere dov’è. Nei quarti aveva posto fine al cammino di Roberta Vinci, migliore azzurra, brava nell’avvicinare il risultato di dodici mesi or sono, malgrado una forma non perfetta. Se continuerà o meno non è dato sapere, il nostro applauso è comunque già garantito e va esteso a Paolo Lorenzi, che a 35 anni ha battuto il maratoneta Simon 7-6 al quinto e poi tolto un set a Murray al 3° turno. Due esempi da seguire per un tennis italiano le cui prospettive a medio termine non sembrano essere promettenti.

Twitter: @MicheleSarno76

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