Patrick de Gayardon, l’uomo per il quale il cielo non fu un limite
Precipito guarda a che velocità io sto cadendo, canta Giorgio Canali. E giù, come Icaro, sono precipitati rovinosamente e recentemente i base jumper Uli Emanuele, Alexander Polli e Armin Schmieder. Ma un nome precede il loro, quello di Patrick de Gayardon, colui che al tutto ha dato inizio.
Molti di noi erano probabilmente dei bambini, quando in quel triste spazio di ventiquattro ore del 13 aprile 1998, i telegiornali comunicarono la morte di colui che all’epoca era (ed è) il più grande base jumper di tutti i tempi. Quel giorno, mentre stava testando la sua nuova tuta alare sul cielo delle Hawaii, il paracadute non si aprì, quello di riserva si impigliò fra le corde del primo e Patrick de Gayardon perse la vita, schiantandosi al suolo a soli 38 anni. Ma facciamo un passo indietro.
Alla fine degli anni Ottanta un’atmosfera incredibilmente ricca di innovazioni e un clima di grande entusiasmo verso gli sport estremi avvolgeva il Massiccio del Monte Bianco. Entrato nell’équipe dei paracadutisti di Francia, il ventenne Patrick de Gayardon appare come un ragazzo silenzioso che non ama parlare, reticente soprattutto sulla sua storia personale: un lupo solitario, questa è la prima immagine che si ha di lui. Ma mettiamo da parte il suo profilo psicologico, condizionato forse dalla mancanza della figura paterna, come probabilmente avrebbe detto Freud, e passiamo all’indagine del suo rapporto con lo sport.
Sull’isola di Pentecoste esiste una tribù chiamata Sa, nella quale gli adolescenti per diventare adulti devono lanciarsi da torri alte trenta metri legati solo dalle liane. Questo rituale del tuffo a terra (che ha ispirato il bungee jumping), si può collegare al modo in cui Patrick de Gayardon vedeva la sua disciplina: una fusione fra la cultura del paracadutismo moderno e il rito iniziatico di tuffarsi nel vuoto come veniva interpretato dalle antiche religioni: ne era assolutamente affascinato. Ed era il luglio del 1992 quando dal Massiccio della Guayana, in Venezuela, Patrick salta in mezzo ai vortici d’acqua della cascata più alta del mondo, Salto Angel, in preda alle correnti del vento. Nessun paracadutista aveva mai, prima di quel momento, affrontato una simile impresa poiché ritenuta impossibile. Patrick non si lancia da un aereo, bensì da fermo, dalla superficie terrestre: l’intento era quello di mostrare l’arte del base jumping in un contesto immenso, pericoloso e dispersivo assumendo di volta in volta, dopo il salto mortale, posizioni e figure diverse che mai si erano viste prima. “È una cosa esaltante, stimola la fantasia, è difficile descrivere la sensazione che si prova quando le rocce sono così vicine, quando ti scorrono accanto. Riesci a sentire la massa d’acqua tanto è vicina, ti senti parte della natura“. Con queste parole Patrick commenta il lancio venezuelano.
C’era un record che ancora non aveva affrontato, quello dell’altitudine, ovvero lanciarsi dal limite della protosfera. La prima volta lo affronta a Bordeaux, dove salta da 11.700 metri di altezza, ma la svolta decisiva è datata al 14 novembre del 1995 quando in Russia, dai cieli di Mosca, precipita da 12.500 metri. Patrick de Gayardon dedica mesi alla preparazione di questo progetto dinamico: si esercita con le tecniche degli apneisti poiché a quell’altitudine non c’è abbastanza ossigeno, la temperatura è pari a 60° sotto lo zero e occorre trattenere il respiro finché non si raggiungono gli strati inferiori dell’atmosfera. Percorrendo una velocità pari ai 450 chilometri orari, Patrick colleziona un altro successo.
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Il frutto è cieco, chi vede è l’albero: è con questa frase di René Char che possiamo commentare il tuffo di Patrick de Gayardon nel buco più profondo della terra nel 1993: il Sótano de las Golondrinas, una grotta carsica posta al centro della giungla messicana. Con una profondità di 376 metri e un diametro di soli 60 metri (che non consentiva l’apertura del paracadute se non dopo i 150 metri), Patrick passa repentinamente dalla luce accecante al buio profondo, scivolando nel vuoto senza punti di riferimento: “Ho superato il limite della caduta, ho la sensazione di andare oltre i limiti dello spazio, di guardare oltre i limiti del tempo”.
Dal cuore pulsante della terra alla superficie gelata della banchisa artica. La nuova azione non rappresenta per Patrick un record da battere, ma un’avventura puramente spirituale, un’esperienza interiore che desidera fare: precipitare verso quella immensa calotta di ghiaccio solcata da minacciose fratture liquide avendo dentro di sé “una sensazione di calma profonda”. Quando entra per la prima volta nella “galleria del vento”, una nuova era nel mondo dello sport ha inizio. Patrick de Gayardon è stato il primo uomo a essere sospeso all’interno del “tunnel del vento”, a 200 chilometri all’ora, con dei sensori collegati a un computer (per l’elaborazione dei dati) indossando quella che è la concretizzazione dei sogni più sfrenati dei paracadutisti: la tuta alare. A quel punto è finalmente possibile spostare la prestazione nel cielo, che da verticale diviene orizzontale. Patrick vola nel cielo come un uccello, come un aeroplano. Era ormai nato un nuovo strumento alare e decide di testare la sua sua tuta in Arizona nel 1997, sorvolando il panorama surreale del Grand Canyon e accarezzandone le sue rocce. Il lancio più alto che fece con la tuta alare fu da 700 metri di altezza, consentendogli di percorrere 9.000 chilometri a una velocità di 250 chilometri orari.
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Patrick nutriva una grande fiducia nella tecnologia, avendo allo stesso tempo un grande rispetto per la natura: non aveva nessuna pretesa di dominare gli elementi, piuttosto sentiva di doversi amalgamare con essi. A proposito del suo rapporto con essa, nel febbraio del 1998, due mesi prima di morire, dichiarò che misurarsi con la natura o con se stesso “non vuol dire lottare, direi piuttosto che vuol dire giocare. In tutte le sfide ci sono dei rapporti di forza ma bisogna rispettare l’avversario”. Una volta, il film maker Didier Lafond gli chiese cosa avrebbe fatto nel caso in cui il paracadute non si fosse aperto e lui, serenamente, rispose che una soluzione l’avrebbe trovata al momento. Era consapevole della pericolosità dello sport da lui esercitato, infatti ogni giorno pensava alla possibilità di morire: non era assolutamente un fatalista, non si affidava al destino. Accade però che in quel 13 aprile del 1998 per il figlio di Dedalo e Naucrate, qualcosa andò storto. Forse il paracadute non si aprì o probabilmente il nostro Icaro voleva atterrare senza aprirlo. Una cosa è certa: fu un incidente banale per un uomo dedito a grandi imprese decisamente mortali.
Il ricordo di Patrick de Gayardon si visualizza nelle nostre menti attraverso le immagini che catturano il suo free style nel cielo, quando con la tavola da snowboard scivola sulle correnti d’aria e lo vediamo sorridere alla telecamera, in caduta libera, mentre esprime tutto il senso di libertà che soltanto questo sport può darti.
“Io sono un uomo libero, penso che i limiti siano nella nostra testa”.
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