Perché il terrorismo in Turchia sembra non conoscere tregua
Il terrorismo in Turchia sembra non conoscere tregua. Dieci, nell’ultimo anno, gli attentati nel Paese; quasi trecento le vittime. E mentre ancora si piangono i morti dell’aeroporto di Istanbul-Atatürk, non fa quasi notizia l’attacco a Mardin, nel sud-est del Paese, dove il 9 luglio un’autobomba è esplosa uccidendo un soldato dell’esercito turco e un civile. Il risultato è un Paese nel caos: turismo in agonia, media paralizzati dalla censura di Stato e una deriva autoritaria – guidata dal Presidente Recep Tayyip Erdoğan – lontanissima dai valori laici sui quali fu fondata la Repubblica dopo la caduta dell’impero Ottomano. Ad oggi, la Turchia è la nazione più colpita dal terrorismo jihadista. Le ragioni sono tante e si intrecciano alle vicende politiche del Paese. Per meglio comprenderle, bisogna fare un passo indietro.
Terrorismo in Turchia: il fronte curdo e le elezioni del 2015
Personalità suscettibile e intransigente, Erdoğan ha dato al suo governo un’impronta islamica e conservatrice, facendo compiere alla democrazia turca una netta involuzione. Per il leader dell’AKP la sfida più grande si è presentata nel giugno 2015, quando le consultazioni politiche non hanno riconfermato la maggioranza al suo partito. Ritrovatosi senza i numeri per governare, Erdoğan ha sfruttato la “teoria della cospirazione” per presentarsi come l’unico leader in grado di mantenere l’ordine, dipingendo la Turchia come uno Stato accerchiato, pericolosamente in bilico. La strategia è stata quella di alzare il livello dello scontro sul fronte curdo, sfruttando piccoli incidenti come pretesto per bombardare l’opposizione nel sud del paese. In Turchia, i curdi sono circa il 20% della popolazione, rappresentati dal Partito Democratico del Popolo (Hdp) e dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Con il fronte curdo, Ankara intrattiene da anni una guerra aperta che Erdoğan ha saputo sfruttare per riottenere la maggioranza nelle elezioni di novembre. Diversi analisti ne hanno parlato in termini di una vera e propria “strategia della tensione” intesa a far leva sulla paura della popolazione per proporre il Presidente turco come unico possibile argine al caos. Come era prevedibile, a questo contorto calcolo elettorale i miliziani curdi hanno risposto provocando una nuova ondata di terrorismo in Turchia.
L’Isis e il fronte siriano
Nella guerra siriana, la Turchia ha fornito da subito appoggio ai ribelli che combattevano contro Assad, spesso senza curarsi troppo del loro estremismo. Oltre a voler deporre il presidente siriano, l’obiettivo di Ankara è quello di arrestare l’avanzata dei peshmerga, trascurando che il fronte curdo sia il freno più importante all’offensiva dell’Isis. La Turchia è diventata il principale bersaglio dello Stato Islamico quando Erdoğan, pressato dagli alleati occidentali, ha dovuto prendere una posizione chiara (dopo mesi di tentennamenti), aderendo nel luglio 2015 alla coalizione anti-Is a guida USA. La ritorsione di Daesh non ha tardato ad arrivare, aggravata, ultimamente, dal riavvicinamento tra Ankara e Mosca e dalla normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Israele. Lungi dal mantenere la promessa di ristabilire l’ordine, le scelte di Erdoğan in politica estera e interna hanno fatto scivolare il paese in un baratro pericoloso, spianando la strada sia al terrorismo interno che a quello jihadista.
Un futuro incerto
Più che Erdoğan stesso, probabilmente, i turchi hanno amato la Turchia di Erdoğan. La controparte di una politica estera e interna tanto scellerata, è stata infatti una crescita economica sostenuta, che portato il paese a triplicare il suo Pil in pochi anni. Il miracolo economico, però, si sta lentamente esaurendo. E alle prossime elezioni difficilmente Erdoğan potrà riproporsi con successo come paladino dell’ordine dove già troppo sangue è stato versato.
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