Vinicio Capossela, al via a Roma il tour “Polvere”
“Questo è il male che mi porto da trent’anni addosso, fermo non so stare in nessun posto”. Era il 1996 e Vinicio Capossela cantava così nella title track del suo quarto disco in studio. Da Il ballo di San Vito sono trascorsi altri 20 anni, ma il ritornello è rimasto lo stesso: la musica concepita come un viaggio in divenire, una strada assolata da percorrere con la chitarra sottobraccio. Viaggio che Capossela conduce ormai, instancabile, da oltre un quarto di secolo, e la cui ultima tappa porta il nome di Canzoni della Cupa. Prima fermata per presentare dal vivo il disco è l’Auditorium Parco della Musica di Roma. L’estate è arrivata da appena qualche giorno, eppure quando Capossela fa il suo ingresso in Cavea sembra già essere una torrida serata d’agosto. Ha inizio così il cammino, lungo più di due ore, che attraverso terre assolate e arse dal sole dà il via al tour Polvere, una delle due parti che compongono l’ultima, bicefala, fatica del cantautore.
Come nel più famoso romanzo di John Fante – autore amatissimo da Capossela – è la polvere a raccontare una storia: Canzoni della Cupa è un concept album in movimento, ma il pulviscolo non è sinonimo di staticità; piuttosto di dinamismo, di terra smossa da moto e agitazione. Il viaggio ha inizio nel profondo sud dell’Irpinia, ma la musica fa il giro del mondo passando per sonorità africane, medio-orientali e fiati mariachi. L’atmosfera è di gioiosa convivialità; dominano le percussioni e le suggestioni tipiche della world music. Il materiale sonoro, asciutto ed essenziale, trasfigura luoghi reali e immaginari: dalla Puglia fino al Messico, il folk di Vinicio Capossela abbraccia la platea fino a quando l’esigenza di abbandonare il proprio posto per alzarsi e ballare si fa improrogabile. L’isotopia dei testi è quella della migrazione, del viaggio spesso difficile, intriso di nostalgica malinconia.
Non a caso, il compito di chiudere il disco spetta al brano Il treno, un richiamo autobiografico dalle sonorità western morriconiane. Anarchico e istrionico, Capossela fonde tutto questo in uno show dai richiami ancestrali, un rito dionisiaco che esplode nella parte finale con quelli che il padrone di casa chiama gli “ospiti non invitati”; classici comeChe cos’è l’amor, Il ballo di San Vito, Il Maraja. Infaticabile, Capossela continua il suo viaggio per tenere viva la tradizione folcloristica del nostro Paese. Un ritorno alle radici della nostra storia, dalle prime vibrazioni del tamburo della vita. Cala il sipario sul concerto con le note de La Golondrina, e incamminandosi verso la notte romana si ha quasi la sensazione che ad attendere fuori l’Auditorium di Renzo Piano ci siano le strade solitarie velate dalla nebbia e dalla polvere delle pagine di Fante.
Vinicio Capossela
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