Intervista a Lorenzo Richelmy, protagonista de “Il terzo tempo”
Lorenzo Richelmy ha 23 anni, eppure ha fatto i compiti. Dopo aver esordito in teatro a soli otto anni, è passato per la fiction (I liceali), il web (Kubrick, Alice non lo sa) nonché ovviamente per il cinema (100 metri dal paradiso, Terra e vento).
Nel frattempo ha trovato il tempo di diplomarsi, l’ammesso più giovane di sempre, al Centro Sperimentale di Cinematografia di Cinecittà. Sarà inoltre il figlio di Verdone in Sotto una buona stella, al cinema da febbraio. Nel film Il terzo tempo, uscito ieri nelle sale, è Samuel, ragazzo di strada che scopre un’attitudine per il rugby e il lavoro di squadra.
Lorenzo, come nasce Il terzo tempo?
Il film è il saggio di diploma del Centro Sperimentale: solitamente si propone un corto, ma nel caso di un’idea particolarmente interessante o di un regista particolarmente talentuoso viene realizzato un lungometraggio. La maggior parte della troup è quindi composta da ragazzi che provengono da questa scuola, un’esperienza divertente ma al tempo stesso faticosa, anche fisicamente. Mi sono dovuto allenare parecchio per propormi in modo credibile come rugbista. E’ stata una grande responsabilità per tutti noi, di quelle che derivano dalla consapevolezza di avere per le mani un progetto che potrebbe cambiarti la vita. Solitamente quando giri un film con un regista che ha già esperienza, finisci per affidarti alle sue indicazioni. In questo caso era impossibile, perciò la soddisfazione è immensa.
Quali sono i pregi di questo film?
Ci siamo basati sui grandi classici alla Rocky. Questo la dice lunga sulla storia che, pur essendo molto semplice e lineare, appartiene ad una tipologia sconosciuta al cinema italiano, diviso fra la commedia senza spina dorsale e l’introspezione psicologica fine a sè stessa: in questo contesto Il terzo tempo è un film che fa dell’onestà il suo punto di forza, senza ambire a toccare temi che non lo riguardano. Il fatto che si tratti di un’opera prima gli attribuisce un valore aggiunto, perché è sì un lavoro giovane, ma altamente professionale. Probabilmente la regia è il picco più alto di professionalità del film.
Il cinema italiano non è sempre una garanzia. Mai pensato di andare all’estero?
La recitazione è l’unico mestiere al mondo che non si può esportare, per un evidente problema di linguaggio. Se vai in Francia ad esempio, pur sapendo perfettamente il francese, l’accento finisce per tradirti. Non a caso gli attori italiani che ci provano sono pochissimi. Il progetto di andare fuori nella mia testa esiste, come mille altri progetti, ma ci vorrei arrivare preparato. Questo non cambia il fatto che è l’Italia il paese in cui vorrei passare la mia vita, se il lavoro me lo consente.
Ti sei mosso in vari mondi: quello del teatro, del cinema, della fiction e del web. Cosa scegli?
In questo momento il web e il cinema. Il web perché offre uno spazio libero per chiunque abbia un’idea. E’ il futuro ed è estremamente divertente, anche se produttivamente non rende. Però in assoluto preferisco il cinema, e lo dico nonostante il teatro sia il mio punto di partenza e l’ambito professionale della mia famiglia. Il cinema, anche se lo sto ancora esplorando, rimane per me l’esperienza più importante per imparare il mestiere dell’attore.