Giuseppe Tornatore, i sessant’anni di un regista da Oscar
Il regista siciliano Giuseppe Tornatore, premio Oscar per il suo capolavoro acclamato “Nuovo cinema Paradiso”, compie sessant’anni. Nato a Bagheria, in provincia di Palermo, muove giovanissimo i primi passi nel mondo del cinema subito proponendosi come narratore originale e passionale, figlio degno della grande tradizione cinematografica italiana. La sua è una produzione trasversale che abbraccia e cavalca temi differenti che ha, come denominatore comune, uno sguardo analitico attento e brillante, poetico e malinconico, sospeso tra il neorealismo di maestri come De Sica e Rossellini, e l’epica contagiosa del Sergio Leone di “C’era una volta in America”. Per comprendere a pieno la sua genialità artistica, esploreremo un’immaginaria trilogia di concetti, attraverso il suo racconto fascinoso del male, del cinema come sogno, della politica come rappresentazione della vita.
L’epopea sinistra e fascinosa del male. Il primo lungometraggio del regista siciliano, “Il camorrista” (1986), soffre di un parto ostico e tormentato, in virtù di un tema difficile e spinoso come quello della camorra. L’opera, nuda e realista, viaggia su un binario crudele, con un racconto lucido e spietato di uno spaccato italiano a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, ripercorrendo la parabola del Professore di Vesuviano (evidente rimando a Raffaele Cutolo) a partire dalla presa del potere nelle carceri napoletane, attraverso la concettualizzazione della NCO (Nuova Camorra Organizzata), fino ad arrivare al suo declino tra velenosi tradimenti e sanguinose lotte tra nuove faide malavitose. La sensibilità spiccata di Tornatore lo porta a confrontarsi, nel suo primo lavoro, con una realtà apparentemente distante dal suo luogo d’appartenenza; lo scenario dei racconti è pur sempre immerso, geograficamente, nel vecchio Regno delle Due Sicilie, ma analizza un codice ed un fenomeno criminale differente dalla più conosciuta e a lui prossima Mafia siciliana. Questo distacco geografico e culturale, permette al regista di essere narratore imparziale affascinato sì, inevitabilmente, dalla sinistra seduzione del male e dalla sua architettura, ma profondamente conscio che il linguaggio narrativo e filmico necessiti di un messaggio anti-etico e anti-morale, dove il male si mostra un tutto il suo terrore più profondo e meschino, impedendo allo spettatore una pericolosa ed inevitabile trappola empatica. Una lezione importante di cinema e narrativa, che pone le basi per un nuovo filone neorealistico sulla scia dei grandi maestri del passato, diventando un mentore profetico per i tanti epigoni successivi che hanno saputo saggiamente modernizzare la sua lezione con astuzia e talento. Il Garrone di “Gomorra” , su tutti, estremizza il concetto brutale di Tornatore rendendolo ancora più scarno e sanguinante, trasportandolo su un piano emotivo torbido e documentaristico dove non c’è più spazio per equivoche immedesimazioni.
Il cinema come leggenda: il sogno. “La Leggenda del pianista sull’oceano” è un’opera che nasce da un monologo teatrale di Alessandro Baricco “Novecento” che Tornatore sapientemente traspone in chiave filmica nel 1998. Novecento (Danny Boodman T.D. Novecento), interpretato da un magnifico Tim Roth, è un uomo nato e cresciuto sul transatlantico Virginian, che mai in vita ha posato i piedi sulla terraferma. La sua è una storia di leggenda e mistero, un viaggia meta filmico dove l’immaginazione e l’incanto si confondono, in un trasporto emotivo continuo ed appassionante. Le sue gesta sono narrate a ridosso del secondo conflitto mondiale e vivono di un’immaginazione che è essa stessa elemento fondante del cinema, quando il mondo quasi fiabesco di Novecento si scontra con una realtà dura ed affascinante come quella del periodo storico di riferimento. Tornatore è magistrale nel galleggiare con i caratteri della sceneggiatura in un amplesso emotivo goliardico e romantico, come un cantastorie pienamente immerso nel suo mondo immaginifico, rendendolo fruibile e credibile; è, questo, un omaggio al cinema stesso, con tutta la sua verve intellettuale ed infantile al contempo, un trionfo di colori ed immagini interposte nel luogo senza tempo del transatlantico, metaforicamente inteso come un contenitore assoluto di cinema e dei suoi linguaggi. Regina madre dell’opera è la sequenza del passo a due in cui Novecento danza con un meraviglioso pianoforte a coda sulle note di Magic Waltz (Amedeo Tommasi), galleggiando sul parquet del gigante marino tra lampadari immensi, rumori di suppellettili rotti, ed infinite risate liberatorie.
La vita come esegesi politica. L’ultimo tema trattato in questa ipotetica trilogia d’intenti dell’ opera di Tornatore è quello politico sviscerato, senza indugi, nell’ultima grande epopea della sua carriera: “Baarìa”. Il titolo comunica da subito un obiettivo biografico nello scegliere, come sfondo narrativo, la sua cittadina natale Bagheria. Il regista rende omaggio ai luoghi d’infanzia e alla conseguente crescita emotiva e culturale con trasporto ed un certo distacco intellettivo, attraverso un seducente e lucido racconto di vita che abbraccia quasi un secolo del nostro tempo. Sulla scia della grande tradizione di autori come Sergio Leone, Tornatore compie il suo capolavoro ultimo, manifesto di un ideale politico chiaro e schietto, raccontato con fervore e passione, attraverso la vita e il sacrificio, simbolicamente e saggiamente identificati con il valore genuino e supremo della politica. Questa, infatti, non è raccontata secondo canoni retorici ed affaristici bensì attraverso radici più profonde, come la nascita, la crescita e la lotta per i propri diritti. E’ un’opera ,“Baarìa”, che ha l’intento di avvicinare il pubblico alla politica più che indicarne un distacco, semplificandone la sua lettura attraverso la vita comune e legandola, concretamente ed indissolubilmente, alle passioni più sincere: all’amore di un padre per un figlio, al mistero della vita che si rigenera e alla purezza della cultura popolare. Il messaggio arriva al suo apice comunicativo nella sequenza della morte del padre del protagonista “Peppino” (Francesco Scianna) che pronuncia per tre volte la frase topica: “La politica è bella!”. Una vera lectio magistralis del concetto e della sua rappresentazione, che lega la politica alla vita e viceversa, facendosi promotrice del suo significato più alto e nobile. “La politica è bella” perché si confonde con la vita per la quale si erge come paladina e guerriera; “La politica è bella” perché è respiro, incanto e partecipazione; ”La politica è bella” perché sa raccontarsi nella spontaneità e nella bellezza di un bambino che gioca con una trottola su una strada piena di polvere. L’opera di Tornatore è un viaggio infinito di cinema e passione, uno sguardo sul Novecento assoluto e necessario nella grande tradizione della letteratura siciliana che da Verga conduce fino a Sciascia ed oltre; una visione moderna della realtà attraverso la cultura popolare e tradizionale, raccontata con eleganza, discrezione ed un linguaggio morbido e malinconico comprensibile in ogni angolo di universo.
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