Simboli. Storie d’amore tra squadre e calciatori
Simboli. Questo sono per le squadre in cui militano i giocatori che chiamiamo bandiere. Vengono identificati talmente tanto con la maglia che indossano o hanno indossato da diventarne simboli quanto lo stemma, i colori e la bandiera. E difatti vengono chiamati “bandiere”. Ma sono simboli. Si può essere simboli anche di squadre di luoghi lontani da casa, a volte con degli oceani nel mezzo. E diventare simboli per scelta e non per nascita. Forse vale ancora di più. Per un tifoso vedere un figlio della città diventare la bandiera della propria squadra è bellissimo. Ma vedere che uno, nato da un’altra parte, poi ama quei colori come te e lo fa per scelta, oltre che bellissimo è anche lusinghiero.
Una simbiosi assoluta fu quella che si creò tra la Sardegna intera e Gigi Riva. Giggiriva per tutti. Tutto attaccato. Nato a Liggiuno, piccolo paesino nel varesotto, giocava nel Legnano e venne mandato in prestito a Cagliari. Per quel ragazzone schivo e taciturno andare così lontano, in una terra che per certi versi allora era ancora “misteriosa”, specie per uno cresciuto a giocare in campi fangosi in mezzo alla nebbia, quel trasferimento non fu una bella notizia. Ma ai sardi quel suo essere silenzioso ma tenace e forte piace, lo rispettano, e lui comincia a conoscere quella terra meravigliosa e quel popolo rispettoso e generoso. Ed è amore, amore totale. Amore che ti fa fare follie. Riva è fortissimo, potente, veloce. Un treno. Gianni Brera lo soprannomina “Rombo di tuono”, suona benissimo, ce lo chiamano tutti. E Riva segna, segna tantissimo e coi suoi goal il Cagliari viene promosso in Serie A. Poi accade l’impensabile, dopo un secondo posto, per la prima e unica volta nella sua storia vince lo scudetto. E non è solo lo scudetto del Cagliari, è di tutta la Sardegna, una rivincita per una terra ancora lontana dai fasti mondani, una terra che, erano tempi strani mi sa, era considerata un posto dove ti mandavano per punizione. Ovviamente lo pensava chi non la conosceva. Una terra che sa far innamorare, come si innamorò Giggiriva, ricambiato, come nelle più belle storie d’amore. Ancora oggi, a Cagliari, in un bar di Viale Trento, c’è una sua statua a grandezza naturale con la divisa del Cagliari. Ma poi arrivò la sfortuna, molti infortuni e quell’unico trofeo rimane solitario in bacheca. E le grandi squadre del nord lo corteggiano, specie la Juventus. Lo ricoprirebbero di soldi che dal Cagliari non potrà mai avere. Ma si può rinunciare a un grande amore per soldi? E che amore sarebbe? Riva rifiuta tutte le offerte: Juventus, Inter, Milan non valgono per Rombo di tuono l’amore di quella terra, di quella gente. E magari i poeti san parlare d’amore meglio di un calciatore, ma questa, che è una della sue più famose dichiarazioni, non è forse una bellissima dichiarazione d’amore?
“Quando vedevo la gente che partiva alla 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto. Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva “Dai, telefoniamo a Boniperti”. Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito”. Non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Ve li immaginate Neymar e Balotelli dire una cosa del genere?
Simboli come Riva probabilmente non ce ne saranno più. Tempi diversi, valori diversi, un calcio diverso. Ma anche nel calcio di oggi ci sono storie così. D’amore infinito. Storie nelle quali un ragazzo giovane arriva da lontano, dall’altra parte del mondo, come disse il Papa. Arriva come contorno all’acquisto di quello che doveva essere la stella di quel mercato interista. Tale Rambert. Nell’Inter collezionerà ben due presenze prima di essere defenestrato. Presentato insieme a quel presunto bomber c’è un terzino di buone speranze, intimidito e con lo sguardo basso. Il bomber è l’altro. Lui è un terzino. E l’Inter come terzino ha già preso Roberto Carlos. Ma chi sarà mai sto Javier Zanetti? In realtà Moratti, appena diventato presidente se ne è innamorato subito. Maradona dice che il miglior acquisto di tutto il calcio italiano quell’anno è proprio questo Zanetti e Bergomi, al primo allenamento, ne rimane folgorato. Nel calcio italiano c’è ancora la regola di massimo tre stranieri in campo. E nelle formazioni estive dei giornali il sacrificato sembra essere proprio Zanetti. Invece l’allenatore dell’Inter, Bianchi, alla prima giornata lo fa giocare. E Zanetti inizia a sgroppare su quella fascia. Parte con palla incollata al piede ed è inarrestabile, segna poco ma fa segnare tanto. Quando segna fa goal pesanti, e anche bellissimi, come quello nella finale di Coppa Uefa a Parigi contro la Lazio. E’ un esempio di serietà, di abnegazione, è una persona ammirevole e generosa anche fuori dal campo, è pettinatissimo! E i suoi capelli diventano un suo marchio di fabbrica, come le cosce enormi. Non si può non ammirarlo. È il giocatore perfetto, il fidanzato ideale da presentare al papà, è attaccato ai colori. Gioca nell’Inter che cambia quattro allenatori l’anno, dell’Inter che
arriva sempre a un passo dal vincere qualcosa e non vince mai, dell’Inter che compra presunti campioni che poi sono bidoni. Ma lui non molla mai. E gioca sempre, diventerà il recordman di presenze della storia dell’Inter, oltre che della nazionale argentina. È corretto e pulito. E pensi che alla fine almeno lui, di quella “pazza Inter” un trofeo se lo meriterebbe. E dopo tanta abnegazione, tanti allenatori e tante delusioni, nell’ultimo decennio della sua carriera si prende tantissime soddisfazioni. Dal “triplete”, scudetto, coppa Italia e Champions (la finale fu la sua 700esima presenza in maglia nerazzurra), ai 5 scudetti consecutivi (si, ok, con calciopoli e tutto ciò che ne è conseguito). Chi ci ha giocato contro lo ammira, chi ci ha giocato insieme lo venera, i suoi tifosi lo amano, gli avversari lo rispettano. Chi ama il calcio lo ama. Zanetti uno dei simboli dell’Inter (insieme a Facchetti), uno che c’è stato nella buona e nella cattiva sorte. Uno che ha perfino duettato con Mina in una rivisitazione di “Parole parole”. Uno che sa commuoversi quando lo stadio intero gli tributa l’ultima standing ovation e non sono solo gli interisti che gli vorrebbero dire grazie ma tutti coloro che amano questo sport. O anche un altro. Perché uno come Zanetti lo ammiri e basta. Ma se sei interista lo ami come un fratello.
I simboli non sono necessariamente dei calciatori. Abbiamo visto che possono essere anche dei massaggiatori. Ma per gli allenatori è difficile. Se c’è un precario nel calcio, quello è l’allenatore. Se c’è qualche problema in genere, il primo che salta è proprio lui. Anche perché, s’è sempre detto, è più facile ed economico cambiare l’allenatore anziché tutta la squadra. Ma ci sono allenatori che diventano simboli più degli stessi calciatori. Che restano per lustri seduti su una panchina. State pensando ad Alex Ferguson? Troppo facile, e sopratutto, Ferguson al Manchester Utd c’è stato poco, se lo paragoniamo a Guy Roux: 44 anni nell’Auxerre. Dal 1961 al 2005. Da un mondo di televisori in bianco e nero senza telecomando al mondo di internet, per dire. Giovanissimo si rende conto di non avere talento alcuno per giocare al calcio ma di calcio è appassionato, di calcio vuole vivere. Così torna ad Auxerre, paesone di 40.000 anime, nessuna industria. Provincia insomma. Infatti la squadra milita nei campionati regionali. Roux, che è un tipo dalle molte iniziative, prende carta e penna e scrive al presidente e si propone. Promette di non volere premi partita e che si occuperà di tutto. Ma proprio di tutto. Perché non si limita a fare l’allenatore. Ripara le panchine, cerca sponsor, parla coi politici e segue i ragazzi delle giovanili anche nell’andamento scolastico. Segue i giocatori in discoteca e li riporta a casa. Fa il padre dell’Auxerre. Quei buoni propositi di rinuncia ai premi toccano il cuore del presidente che la panchina gliela affida. E comincia la scalata. Riesce a portare la squadretta di provincia dai campetti di periferia alla massima serie. E dopo qualche buon piazzamento, vince pure lo scudetto. E quattro coppe nazionali. Un miracolo. Ma la grandezza di Roux non è solo sportiva. È umana. Ha creato una gigantesca famiglia allargata. Ha una moglie e un figlio ma anche tutti i ragazzi della squadra e di tutte le squadre giovanili. Vede tutte le partite dei suoi ragazzi: dai ragazzini ai professionisti. Quelli che vengono da fuori vivono a casa sua, vanno a scuola coi suoi figli e mangiano quel che la moglie cucina. L’Auxerre non è una squadra e Roux non è solo un allenatore. Ha ragione lui quando lo dice. L’Auxerre è il suo giocattolo, può farne ciò che vuole, e lui lo fa benissimo. Auxerre è un piccolo posto, la gente lo conosce, oramai è “quello che si occupa della squadra”, un’istituzione. E se beccano un giocatore che tira tardi in discoteca glielo vanno a dire personalmente. Si comporta come un padre con i suoi giocatori e un po’ tutta Auxerre lo considera un parente. Smetterà poi nel 2005 per l’età e la salute diventata ballerina: 5 mesi di interruzione della sua guida causata un’operazioncina a cuore aperto. Dopo 5 mesi torna in panchina, si rimette la tuta e guida la squadra alla conquista della Coppa di Francia. Poi basta. Ma ad Auxerre di simboli come lui non ne vedranno più. Ma neanche altrove.
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